Potremmo definire aggressività tutto ciò che disturba: esso può essere di genere vario: silenzio, domande, uscite dalla stanza, ritardo o interruzione delle sedute, distruzione di oggetti, aggressioni …
Il termine aggressività (da “aggredior”, “ad-gradi”) è imparentato tramite la medesima radice, che coglie l’accezione di movimento, con i termini repressione, progressione, ingresso ecc…: è la proposizione iniziale ad indicare la direzione del movimento.
In particolare il termine “aggressività” indica “dinamismo appetitivo, un attivo sforzo in avanti esplorativo e di conquista”. La stessa parola è stata utilizzata nel senso di attacco, in fantasia o agito, sottesa da forze distruttive e intenti ostili. Appartiene sia all’istinto di morte sia all’istinto di vita, fa parte sia della distruttività che della costruttività, sia dell’amore che dell’odio.
Winnicott ancora l’aggressività ad una realtà corporea: l’esperienza di motilità, di impegno muscolare, di opposizione precedono e modulano il processo di integrazione, la fusione delle pulsioni erotica e aggressiva, il costituirsi della fantasia.
Le radici della pulsione aggressiva defluiscono quindi dalla forza vitale la cui primitiva espressione è il movimento fetale.
“Questo primo urtare infantile contro qualcosa porta alla scoperta di un mondo che non è il sé del bambino e conduce all’inizio dei rapporti con gli oggetti esterni. Ciò che costituirà in breve un comportamento aggressivo è, quindi, in principio, un semplice impulso che spinge ad un movimento e all’avvio della esplorazione.
Winnicott dice nel suo libro “Il bambino deprivato”: “In tale modo l’aggressività è sempre legata all’instaurarsi di una chiara distinzione tra ciò che è Sé e ciò che non lo è.”
La motilità per trasformarsi in esperienza necessità di incontrare un ostacolo, una opposizione. E’ questa opposizione che agisce sulla conversione della forza vitale in potenziale aggressivo.
Attenzione che stiamo parlando di un’opposizione soddisfacente, cioè che offre al feto/neonato un’esperienza soddisfacente. Eccesso di opposizione rende impossibile l’esistenza dell’individuo.
La funzione materna richiesta qui è quella di opporsi, contrastare in modo continuo, coerente, rispettoso del livello di sviluppo del bambino.
La lettera del pensiero di Winnicott sollecita immagini consuete: ad esempio quella di una madre che gradua il foro della tettarella del biberon in modo tale da stimolare nel bambino quel tanto di impegno muscolare da far si che la motilità sia al servizio dell’esperienza istintuale gratificante.
E’ ancora l’immagine di una madre che si oppone, in una dialettica mimica e muscolare, al libero sgambettare del lattante, ad esempio sul fasciatolo e che facilità il passaggio della motilità nelle esperienze dell’Es. Tali esperienze vengono pertanto arricchite e ancorate alla realtà esterna.
Il libero esplicarsi delle esperienze istintuali porta il bambino a sperimentare il suo amore primitivo in tutta la sua spietatezza e distruttività cioè fa “un uso irriguardoso dell’oggetto” (Bollas, 1989).
Le funzioni materne qui evocate sono il consenso della madre o lasciarsi strapazzare, sentirsi a volte esausta senza pertanto sottrarsi o vendicarsi nel rapporto; fornire al bambino ripetutamente l’esperienza che è sopravissuta all’attacco, “tollerare il proprio odio senza farla pagare” (Winnicott, 1947).
Nel tempo, la “madre che regge tali situazioni offre al bambino la possibilità di elaborare le conseguenze delle sue esperienze istintuali” (Winnicott, 1954).
Winnicott dice: “l’impulso corporeo quando incontra un’opposizione e l’aggressività che da questa si sviluppa fanno sorgere nel bambino il bisogno di un oggetto esterno che non sia solo un oggetto capace di soddisfazione.”
Attraverso le ripetute esperienze del sopravvivere dell’oggetto alla sua distruttività, il bambino può collocare lo stesso oggetto all’esterno del Sé, acquisire e rinforzare il senso di separatezza, in altri termini passare dall’uso dell’oggetto all’entrare in rapporto con l’oggetto.
Ne consegue che il bambino prova angoscia se distrugge la madre perché la perde. Ma tale angoscia si modifica in base alla naturale fiducia del bambino di poter offrire il suo contributo ad un ambiente che gliene darà occasione.
Il bambino può accedere ad una capacità di ambivalenza, mantenere il legame libidico con l’oggetto devolvendo alle fantasie inconsce la distruttività o incanalarla nella vita onirica e nell’attività di gioco.
Gradualmente acquisisce la capacità di preoccuparsi dell’oggetto e l’accesso alla funzione riparativa in quanto tollera i suoi impulsi distruttivi verso l’oggetto buono e ne accetta le responsabilità. Essenziale è che l’aggressività nel bambino possa esprimersi in modo armonico con le altre valenze pulsionali e risulti funzionale a buone esperienze del Sé nella relazione con l’ambiente.
La comparsa dell’oggetto come altro da Sé si accompagna con la comparsa dell’aggressività. Si parla di aggressività libidica al servizio della spinta verso l’oggetto.
Gli sviluppi successivi dell’aggressività dipendono ugualmente dalla possibilità che vengano tollerate le rabbie della separatezza.
Se questa non può uscire viene rimossa, rimane nell’inconscio del soggetto. La distruttività viene allora rivolta contro l’oggetto o contro il Sé.
Abbiamo detto che la comparsa dell’oggetto si accompagna ad aggressività. L’oggetto, come ricorda Gaddini, prima che esterno, viene percepito come estraneo e dunque minaccioso.
La minaccia è una minaccia dell’integrità del Sé e la spinta aggressiva è un tentativo di riappropriarsi di ciò che è andato perduto dal controllo onnipotente.
Ripeto che la capacità di tollerare l’uscita da questa aggressività è proporzionale alle capacità di cure dell’ambiente.
Se una parte del Sé del bambino che si vuole affermare non è accolta da una risposta empatica dei genitori ne risulta un’ esperienza traumatica. Perché l’aggressività funzioni da fattore maturativo non è sufficiente che ci sia l’oggetto verso cui è diretta, ma è necessario che vi sia una elaborazione.
Se il bambino trova sempre l’oggetto stabile, ben funzionante per riempire l’impulso, in lui non funziona il pensiero.
Quindi perché vi sia nascita del pensiero è necessario:
– rifiuto della costanza
– stabilità dell’oggetto madre.
Winnicott dice che “il male c’è perché tra due persone non è possibile che una sia sempre presente agli appuntamenti dell’altra”.
Winnicott ci parla della differenza tra madre-oggetto e madre-ambiente.
Madre ambiente è colei che non si presta ad occupare completamente lo spazio ma è capace di accorgersi che esiste un vuoto ed è capace di accorgersi dell’aggressività del bambino. Madre ambiente è quella capace di accorgersi che c’è il male; questo vale anche per la famiglia ambiente.
La madre che non si accorge che c’è il male sotto forma di energia, magari di rabbia, è facilitata ad essere madre oggetto.
La madre si accorge che il suo bambino ha delle energie e che funziona come della rabbia (modello antico di questa rabbia era la motricità).
Io penso che il modello tipico della nascita dell’aggressività sia l’angoscia di separazione, è una aggressività che appartiene sia all’amore che all’odio e che inizia a funzionare quando il bambino e la madre incontrano la separazione.
Ho cercato molto brevemente di spiegare che cos’è l’aggressività. Ora vorrei dire alcuni pensieri sull’aggressività dei pazienti che possono venire nei nostri studi.
Sappiamo che quando un bambino non è nella comunicazione mimica o verbale con l’adulto è violento… Sarà sempre più violento fino a quando il linguaggio apparirà. Questa aggressività verso gli adulti o altri bambini è da vedersi come una ricerca di presa di contatto e non come qualcosa di “cattivo”, anche se questo farà urlare chi verrà aggredito.
F. Dolto dice: “Interessante è vedere che il bambino che ha provocato l’aggressione ama colui che ha aggredito. Colpisce vedere come un bambino picchiato, dopo la consolazione, ricerca il suo aggressore. Ciò è molto importante perché aiuta il bambino a fare una esperienza d’osservazione di come si aggredisce o di come si è aggrediti, sempre del simbolico”.
Spesso i bambini che vengono in PRL hanno delle difficoltà “verbali”. Come vi ho detto, nel bambino sano che cresce, le difficoltà verbali cominciano a sparire nel momento massimo di aggressività corporea. E’ meglio che la violenza si esprima fisicamente altrimenti si esprimerà somaticamente nel corpo o come “nebbia” nell’intelligenza del bambino: è l’effetto di questa non aggressività che lo rende ritardato, qualcosa che non ha potuto esprimersi né sul piano motorio né su quello verbale. Il bambino si esclude dal capire e si chiude in se stesso.
Quando ci troviamo di fronte ad un bambino instabile ed aggressivo, prima di occuparcene è meglio incontrare la famiglia.
Più gli adulti che si occupano del bambino sono inibiti e depressi, più il bambino deve essere aggressivo per parlare il linguaggio di ciò che è rimosso nell’adulto. Se si fa attenzione si vede che quando questi genitori sono in presenza del bambino, cercano di inibire, di ritenere, di bloccare tutto quello che fa.
Tutte le violenze hanno bisogno di esprimersi perché tutte le violenze sono importanti e da tenere in considerazione. Prima del camminare, sono gli urli; dal camminare a quattro zampe, sono lanci, spostamenti di oggetti. Bisogna che il bambino disturbi gli oggetti perché egli è la vita.
Tutto questo viene fatto dal bambino per obbligare l’adulto ad intervenire, perché è un bambino che cerca la comunicazione e se non l’ottiene è perché l’adulto è solo preso dalle sue attività.
Se vogliamo dunque aiutare un bambino ed essere aggressivo bisogna aiutarlo ad entrare in un codice, in un codice che potrebbe essere quello del gioco:
– si lanciano degli animali
– si lancia la palla in tutte le direzioni
– giochi di spezzettamento
– giochi di costruzione e poi di distruzione.
F. Dolto dice: “Voi avete molti bambini che sono stati inibiti a causa di fobie; ed è per questo che quando essi sono con qualcuno tastano poco a poco il terreno e cercano di vedere fino a dove possono essere aggressivi. E’ a questo punto che, se voi siete troppo passivi, non li istruite su ciò che essi domandano. Essi domandano di essere istruiti di una complicità aggressiva che si chiama “ben giocare”.
E giocare è aggredirsi, tras-gredire, senza arrivare a farsi male e se c’è il male se ne può parlare.
Ruolo dell’adulto con un bambino è di insegnargli l’aggiustamento della sua forza con quella dell’altro che ha di fronte.
Con fatica possiamo constatare, ma spesso molto dopo, che l’aggressività non colpisce noi personalmente, ma attraverso noi presenti, viene colpito qualcun’ altro, ben più importante nella sua vita, un Altro che egli non ha mai osato attaccare.
Dice una terapista: “R. mi colpisce con un piede…. Io passo un certo tempo ad impedirglielo per non essere realmente colpita. Poi dico:
-“A chi vorresti, nel tuo cuore, dare un colpo con il tuo piede ?”
– “… A papà … a mamma ….”.
Ma è necessario che questa scarica aggressiva divenga oggetto di parola e non sia solo eseguita concretamente. Mordere non permette di abbaiare, e colpire non permette di parlare anche se il gesto esprime già la collera o l’odio.
Marina Steffenoni,
Palermo, 10.9.93