Introduzione
Questo lavoro è il frutto delle riflessioni emerse da un gruppo di ricerca di logopediste formatesi in Pedagogia Relazionale del Linguaggio (PRL), con esperienza pluriennale nella riabilitazione dei Disturbi del linguaggio e dell’apprendimento in età evolutiva, formato da: Fiammetta Chiaia, Enrica De Zordi, Magda Gregorat, Raffaela Foletti, Elisa Marabese, Donatella Mazzoldi, Maria Luisa Riolfo e Maria Rosaria Savini e coordinato dalla dott.ssa Agnese Da Rold.
Lo studio è arricchito da brevi resoconti di sedute di trattamento logopedico per meglio riferire i concetti esposti alla pratica riabilitativa.
Definizione
La Stazione è un concetto descritto da Claude Chassagny, pedagogista e psicoanalista fondatore della Pedagogia Relazionale del Linguaggio.
Claude Chassagny ha chiamato STAZIONE una fase dell’approccio PRL.
Il termine STATION in francese rimanda a diversi significati quali posizione (es. stazione eretta), sosta, luogo di fermata, luogo di soggiorno, osservatorio, laboratorio, concetti che evocano immagini di attesa, rispetto, ascolto attento con tutti i sensi, sentimento dell’ignoto, riflessione, sospensione, ricerca in cui s’intrecciano le dimensioni del movimento, dal sostare in uno spazio e in un tempo al muoversi verso.
La parola stazione etimologicamente deriva dal latino stare, significa stazionare, indugiare, contiene la dimensione del tempo e dello spazio ed assume connotazioni diverse a seconda del contesto in cui è inserita. È movimento e stasi, emozione e sospensione, incertezza rispetto al nuovo, allo sconosciuto e desiderio di incontro; può costituire l’inizio di un viaggio che ci porta in un mondo altro riportando alla memoria le parole di Elias Canetti “i viaggi nel meraviglioso non sono spiegabili né riproducibili: avvengono. Per poter vivere, assai più che di mete precise, abbiamo bisogno di una visione.”
PARTONO….. ARRIVANO……. ESCONO…… SALGONO…… SCENDONO……. PARLANO…… LEGGONO.. ..GUARDANO…. OSSERVANO….. ASPETTANO…… PENSANO….
Due innamorati leggono insieme qualcosa su un i Pad, le teste vicine, sorridono, poi ridono e commentano tra loro qualcosa su quanto è scritto.
Un ragazzo con zaino in spalla e occhiali da sole mangia a grandi bocconi un panino imbottito …
Un’anziana osserva la sua vicina, attraverso i suoi grandi occhiali, il mento appoggiato sulla mano
Due bimbe arabe, coloratissime nei vestiti, si rincorrono girando intorno alla loro mamma …
Sono scene che si possono osservare in qualsiasi stazione ci si trovi ad attendere.
Le prime immagini e le parole scaturite pensando alla stazione rimandano all’ esperienza della stazione ferroviaria, con un brulichio di persone in movimento, un accavallarsi di suoni, colori, rumori, lingue che si mescolano, dove la dimensione della sosta ha poco spazio; il confronto con l’etimologia e il significato della parola francese “STATION” utilizzata da Chassagny, ci ha permesso di riflettere su tale concetto utilizzando altre cornici di riferimento: attesa intesa come osservazione, esplorazione di mondi possibili, sconcerto e spiazzamento come occasioni di conoscenza, coinvolgimento e distacco.
Osservare è saper vedere: gli occhi selezionano elementi che possono entrare nella nostra mente e risuonare in base alle nostre cornici sociali e culturali di riferimento che rappresentano una ricchezza, ma possono costituire, talvolta, una barriera; infatti dalla stessa postazione osservativa persone differenti annoterebbero immagini e scene diverse ( almeno in parte).
L’osservatore deve rapportarsi a ciò che osserva e a sé stesso e si muove pertanto in un ambito relazionale e riflessivo. (Sclavi 2003).
La stazione è la metafora della preparazione a un viaggio costellato di emozioni e pensieri, che in tale contesto, è la rieducazione di un disturbo di cui qualcuno ci chiede di occuparci.
Il primo assioma della PRL prevede che non si faccia partire il treno della terapia prima di essere sicuri che per fare quel viaggio i passeggeri abbiano portato con sé tutto quello di cui c’è bisogno. La STAZIONE è per Chassagny l’emblema dell’OSSERVAZIONE e del saper ATTENDERE e … “permette di ascoltare meglio la storia personale di ciascun bambino, portandoci a conoscere e a riconoscere chi si ha di fronte” (Marina Steffenoni, 1984 convegno PRL).
Costituisce una fase dell’approccio PRL nella presa in carico riabilitativa che si applica nella relazione con il bambino e con la sua famiglia, sia nel momento iniziale della valutazione sia nel corso del trattamento.
Si tratta di un ASSETTO MENTALE attivato dal riabilitatore, il quale limita le sue iniziative per dare spazio e tempo al bambino affinché possa prendere contatto con le sue scelte, le sue fantasie, le sue emozioni, con i suoi bisogni cognitivi e affettivi.
“Ogni bambino, come ogni essere umano, è unico e irripetibile: un mondo senza uguali che bisogna prima di tutto conoscere e amare, perché possa riconoscersi ed esprimersi nella sua originalità e nella sua capacità di attaccamento.” (M.Teresa Romanini ).
Esplicitiamo questo concetto con l’esempio di una seduta.
Si tratta di un bambino di 3 anni, in valutazione per ritardo di linguaggio. I genitori riferiscono anche episodi di “assenze” in cui il bambino sembra perso nei suoi pensieri. Alla prima osservazione colpisce il contatto oculare sfuggente e la poca intenzionalità comunicativa, pur con buona partecipazione agli incontri; infatti il bambino si separa serenamente dal genitore, sorride, va incontro alla logopedista. Nel suo gioco manipola una sbarra bianca e rossa che ha trovato nella scatola delle macchinine: il bambino dice /poti tateta pja/ (pronti partenza via…) e la terapista risponde: “vuoi che facciamo una gara?”. Il bambino dice “no”, guardando davanti a sé.
Continua a manipolare la sbarra e dopo un po’ la consegna alla terapista, guardando nella sua direzione, prende le macchine dalla scatola, le mette sul tavolo in fila; la logopedista ne prende una per fargli notare un particolare, pensando di potere condividere il momento. Il bambino dice :/no koka:e makie/ (non toccare le macchine), guardando fisso gli oggetti .
Continua a mettere le macchinine vicine a sé, non le usa, le riordina solamente. C’è una barchetta, una sola; la manipola, commenta e canticchia una canzoncina che non è comprensibile. Il bambino dice: /teni la paka/ (“Tieni la barca”) porgendola alla logopedista che risponde: “Ah la barca! Cosa facciamo con questa barca?”
In questa sequenza il terapista rispetta il fatto che il bambino non sia pronto per condividere un’attività ludica, né per accettare le sue proposte verbali; la logopedista può solo accogliere il gesto di porgere la barca, come l’unico contatto possibile in quel momento tra lei e il bambino.
È importante quindi una buona accoglienza nella stanza di cura, così come è fondamentale che il terapista sia disposto a lasciarsi condurre, sia disposto ad essere soprattutto un accompagnatore al fine di creare un’alleanza con il bambino stesso.
Il terapista dovrà accettare anche la frustrazione che il bambino dica di no, deve uscire dal desiderio del “fare” per accettare che non parta il treno degli esercizi, Questo significa “essere in Stazione”. Quando, nell’esempio riportato, il bambino consegna la barchetta, la terapista può solo prenderla perché per il bambino quell’oggetto ha un senso, anche se la terapista può non capirlo nel momento in cui accade: forse i “no” sono finiti e quella consegna rappresenta l’inizio di un’apertura.
La Stazione è una sospensione dell’agire e del nostro desiderio, che per i terapisti spesso è quello di normalizzare velocemente il bambino.
Se l’interesse del terapista è quello di cogliere ciò che il bambino gli sta mostrando, senza giudizio, accogliendolo così come il bambino si lascia conoscere, allora l’alleanza sarà possibile.
I gesti dei bambini, i loro disegni, le prime parole, anche quelle poco chiare, possono avere molti significati, diventano un lessico condiviso.
In stazione… con i genitori
Anche i genitori, a loro volta, hanno bisogno di uno sguardo che li accolga.
Nei colloqui loro dedicati possono esprimere i pensieri riguardo il bambino e la fatica ad accettare le sue difficoltà; il fine è quello di condurli, con delicatezza, alla comprensione di cosa vuole comunicarci il bambino con il suo sintomo, in un’atmosfera di alleanza e di condivisione.
Il terapista dovrebbe evitare in fase di prima osservazione, di dare indicazioni e risposte immediate: dare subito una risposta ad una domanda diretta del Genitore è un agito non coerente al concetto di Stazione. È auspicabile una modalità di ascolto attivo, di rispecchiamento e riformulazione di ciò che dice il Genitore, ponendo e ponendosi degli interrogativi. Tale setting permette al Genitore la strutturazione di un pensiero più elaborato attorno al suo bambino, un pensiero che possa condividere con noi.
Accade spesso che i genitori sull’uscio, prima di andarsene, forniscano informazioni importanti; è bene che il logopedista, in questi casi, accolga queste comunicazioni fugaci, ma non dia subito una risposta, né esprima un giudizio, piuttosto le conservi per poi riprenderle successivamente in occasione di un colloquio.
Riportiamo ad esempio la parte conclusiva di una prima seduta di osservazione di un bambino con un disturbo del linguaggio: la mamma chiede al bambino di aspettare fuori con il papà. Poi racconta alla logopedista che il bambino è frutto di una violenza che lei ha subito. Aggiunge che il bambino non sa nulla ed è convinto che il padre sia l’attuale compagno della signora. La logopedista risponde che se la signora lo vorrà, ne potrà parlare nel colloquio di restituzione tra logopedista, neuropsichiatra e genitori. Il segreto della madre è ascoltato, accolto, custodito e diverrà occasione di riflessione nella discussione del caso con il neuropsichiatra e nel colloquio di fine osservazione.
La comunicazione è importante e la madre ha deciso di affidarla alla logopedista. Ma adesso non è il momento perché questo è uno spazio per il bambino. Si dovrà proporre alla signora un altro appuntamento, un nuovo spazio dedicato.
La terapista si occupa del bambino che è il suo utente, quindi, sarebbe importante che lo spazio del bambino non venisse invaso.
Questo concetto ci permette di costruire la cornice dentro cui lavorare col bambino.
Un altro spazio separato servirà quindi a costruire una “cornice” per la mamma. In questo modo ogni persona riceverà uno spazio che è di ascolto, di attenzione e di rispetto.
Questa modalità di lavorare, accogliendo le comunicazioni ma offrendo spazi di ascolto dedicati, tutela tutti i protagonisti, anche gli operatori che si trovano a gestire comportamenti dei genitori che possono essere pesanti, o denigranti o forse a volte anche violenti. Che richiedono comunque un buon assetto per essere accolti
L’arte di ascoltare, secondo Marianella Sclavi (2003), implica una competenza comunicativa, una consapevolezza delle cornici di cui facciamo parte, per crearne di nuove; favorisce infine “lo sviluppo di una visione binoculare”; le emozioni che circolano ci danno informazioni non su cosa vediamo, ma su come guardiamo, parlano degli sfondi sociali e culturali con cui interpretiamo il mondo.
Un altro contributo teorico che ci sembra importante ricordare è il concetto elaborato da Bion (1962); egli sostiene che il terapista deve “astenersi da memoria e desiderio” in quanto passato e futuro interferiscono sull’esperienza emotiva del momento e sull’osservazione ed indeboliscono “la capacità della funzione alfa che elabora l’esperienza stessa, costituita da impressioni sensoriali ed emozioni per formare pensieri onirici adatti per pensare” (Meltzer, 1998).
Le competenze
I principi fondanti della fase della Stazione sono:
- mettere il sintomo in secondo piano,
- osservare in modo partecipe le attività spontanee del bambino,
- saper attendere.
Mettere il sintomo in secondo piano
Il sintomo, per il quale ci viene richiesta la consultazione, non è la priorità durante la fase della Stazione; esso viene considerato, ma tenuto sullo sfondo.
Naturalmente la competenza professionale specifica del logopedista, del neuropsicomotricista o del fisioterapista, è attiva, ma le sue conoscenze che, nel caso del logopedista riguardano il linguaggio verbale del bambino, i diversi livelli di analisi linguistica e delle funzioni comunicative, resteranno sullo sfondo, perché ciò su cui concentreremo la nostra attenzione sarà il bambino in quanto persona con le sue parole, i suoi gesti, i suoi giochi. Nella Stazione contano tutte le manifestazioni del bambino.
A tale riguardo vorremmo citare Massimo Recalcati (lectio magistralis Pordenone17/09/2016), che, riprendendo il pensiero di Lacan, afferma che nello sviluppo comunicativo e linguistico del bambino si possono osservare tre fasi: quella della “lalangue” profondamente radicata nel corpo e costituita da un impasto di emissione di foni e corpo; quella della lingua familiare costituita da un codice ristretto ed infine quella dell’alfabeto, del codice con regole precise, che permette l’accesso al mondo, ma implica la perdita della lingua familiare.
Questi concetti ci invitano ad interrogarci: dov’è il bambino con il linguaggio che ci porta? A quale livello si pone? Parla una “lalangue”, una lingua familiare, o possiede già le regole del linguaggio sociale?
Cosa significa, allora, la parola sintomo, cosa ci sta “portando” quel bambino o quella bambina? Freud (Introduzione alla psicanalisi, 1917) afferma: “un sintomo si forma a titolo di sostituzione al posto di qualcosa che non è riuscito a manifestarsi al di fuori. Certi processi psichici, non avendo potuto svilupparsi normalmente, in modo da arrivare sino alla coscienza, hanno dato luogo ad un sintomo”.
Lo si potrebbe intendere, dunque, come un meccanismo a cui si ricorre quando non si trova altra via per esprimere un disequilibrio. Comunemente lo si considera la “manifestazione” di qualcosa, un “fenomeno” che si osserva e, riferendoci all’etimologia greca, “symptoma” significa avvenimento fortuito, indizio, “fatto morboso che coincide con un altro fatto che ne è l’effetto o il segno” (Dizionario etimologico www.etimo.it).
Potremmo pensare che il sintomo sia la via che il bambino trova per farsi aiutare.
Ecco che, ad esempio, il disturbo o il blocco nel linguaggio nel bambino, potrebbe essere una modalità per esprimere un disagio, l’unico modo che egli ha per organizzarsi, un modo per restare nella situazione nota, o per poter regredire a una situazione che gli è conosciuta e sente sicura.
In questa accezione il sintomo diventa il motore grazie al quale il sistema familiare entra in una relazione di aiuto.
Il terapista quindi si prende il ruolo di accompagnare questo processo in un’ottica evolutiva globale, non solo linguistica. È importante aver presente questi significati, perché il rispetto e il riconoscimento del bambino e dei suoi sintomi esclude automaticamente l’obbligo di intervenire subito e direttamente sul linguaggio.
Porsi in attento ascolto e in un’ottica di osservazione per capire cosa racconta un bambino tramite il suo sintomo, diventa basilare in ogni tipo di intervento riabilitativo.
Osservare in modo partecipe le attività spontanee del bambino
La differenza, tra il gioco che il bambino esegue a casa o da solo e quello che esegue nel corso del trattamento, è la presenza del logopedista che fa da testimone del gioco. Proprio perché il gioco è guardato da un Altro, assume un particolare Senso. Il terapista osserva, si mostra attento ai particolari, riflessivo senza alcuna urgenza classificatoria, in contatto con quello che accade e a come ciò risuona dentro di lui o lei. Cerca di assumere quella capacità di “rêverie” che, nella lingua francese rimanda a fantasticheria, “esprime un’attitudine sognante un lieve fantasticare ad occhi aperti” ((Chiesa 2012) mentre in ambito clinico indica “la capacità dell’analista di recepire comunicazioni del paziente pre-verbali o verbali, capacità di ricezione che è accompagnata da una concomitante attività di elaborazione” (Di Chiara 1992). La rêverie materna sta a designare lo stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli “oggetti provenienti dall’oggetto amato” (Bion 1988) e costituisce dei fattori della funzione alfa della madre (Bion 1988) che accoglie le esperienze sensoriali, percettive, corporee ed emotive del bambino trasformandole in pensieri, favorendone in tal modo la crescita dell’apparato psichico. Vallino e Macciò (2006) nel loro testo “Essere neonati”, ampliano il concetto della funzione di rêverie integrando diversi contributi teorici (Winnicott, Bowlby) e ne delineano alcuni elementi fondanti:
- la madre attribuisce al suo neonato una mente, gli riconosce atti mentali ed affettivi;
- la madre riconosce che il neonato è una mente diversa dalla propria, grazie a tale attitudine la madre prova ad immaginare l’altro “nel senso di saper comprendere dall’interno lo stato mentale di una persona anche se vive in una situazione assai diversa dalla nostra”,
- di fronte al bambino che sperimenta esigenze psicologiche nuove e soffre, è la rêverie materna, che sostiene “la formazione di una prima consapevolezza nel bambino”;
- l’attività del pensiero non è indolore, è necessaria, come afferma Bion” la capacità negativa” qualora “pensare significa cercare di uscire dall’ignoto…sopportare di stare nel non sapere, nell’incertezza”;
- oltre alla capacità negativa il processo di rêverie richiede “sovente la creatività, l’invenzione, un processo di pensiero sostenuto da una speranza pervicace;
- infine la madre che attribuisce una mente al suo neonato necessita di un’altra convinzione che nel suo bambino o bambina siano intrinseci “la ricerca della speranza, di poter aver fiducia e desiderare”.
Un altro spunto di riflessione in merito alla funzione materna è suggerito da Winnicott che scrive: “Soltanto se la madre è sensibilizzata in questo modo si può mettere nei panni del bambino e rispondere ai suoi bisogni. Questi dapprima sono bisogni corporei e poi divengono gradualmente bisogni dell’io” (1956, 361).
Nella fase della Stazione di solito non si fa terapia sul sintomo, ma si avvia una relazione terapeutica per far percepire al bambino che si ha fiducia nella sua crescita e che tutto ciò che lui inventa con i suoi modi e tempi verrà accolto.
Solo così il bambino, in uno spazio condiviso e protetto, farà conoscere le sue linee di forza in modo che il terapista in seguito le potrà sostenere e rinforzare.
Nello spazio terapeutico-logopedico, il bambino può sentirsi libero di esprimersi con pensieri e parole che diventeranno nel tempo e con gli adeguati interventi, più chiare e comprensibili.
In questa situazione si consente al bambino di organizzarsi da sé; i contenuti appartengono solo a lui, le sue iniziative (gesti movimenti, silenzi, disegni) rappresentano la sua personale visione del mondo e delle cose.
“In questo modo il bambino si struttura, si organizza, si prepara ad un altro ordine (interno) di cui solo a tratti si ha coscienza” ed ancora “Gli atti del bambino risuonano nell’osservatore e diventano simbolo interno” (Claude Chassagny 1984).
Un altro esempio da una seduta.
Giuseppe ha 5 anni e presenta un ritardo di linguaggio, il trattamento logopedico riprende dopo un’interruzione di 3 mesi; deve essere rivalutato: al termine del precedente ciclo mancavano ancora dei fonemi e la frase non era sempre corretta, i genitori riportano dei miglioramenti generali. È un bambino pacato, in grado di adattarsi ma anche di fare delle richieste.
Riferisce la logopedista: appena arrivato gli chiedo come sta e gli spiego che riprendiamo a vederci come prima. Lui risponde in modo sintetico, con dei sì e dei no, alle domande dirette, poi si siede al tavolo e dice:
B – sai che io no ho /tezione/?
L – Come? Non capisco
B – Mamma detto /tezione lotta/
L – Ah, si è rotta la televisione?
B – Sì
L – Così non puoi vedere i cartoni?
B – Sì, però …. (silenzio)
L – Li vedi sul tablet?
B – No …
L – Sul computer?
B – /compute nero mamma e telepono papà/
L – e quali cartoni vedi?
B – /spaimen/
Poi si alza la felpa e mi fa vedere la maglietta con stampato un supereroe, gli chiedo chi è, lui sorride e non risponde …
L – È Batman?
B – Sì, ha la /makja volante/ …. voglio fare un disegno “
La logopedista in questa situazione aveva un progetto per una valutazione diretta allo scopo di vagliare lo stato del linguaggio, ma il bambino le propone invece una conversazione su argomenti per lui pregnanti. La logopedista, quindi, sospende il suo proposito, accoglie gli argomenti del bambino e procede a una valutazione dell’eloquio spontaneo e della rappresentazione grafica, rinviando temporaneamente l’approfondimento testistico. Informazioni linguistiche sono ricche: la frase non è ben strutturata a livello morfosintattico, l’inventario fonetico non è completo.
Per lui ri-incontare la terapista è così importante che può confidare la sua preoccupazione per la televisione rotta, il rapporto già esistente ha permesso di parlare di qualcosa che al bambino dispiace. Quello che dice il bambino, anche se apparentemente non congruente, per noi ha valore e ci fermiamo nel territorio proposto dal bambino, la valutazione testistica dovrà aspettare.
SAPER ATTENDERE
Quando ci si propone di conoscere un bambino non bisognerebbe avere fretta: dovremmo essere capaci di concedere il tempo necessario al bambino e a noi stessi per entrare in comunicazione, che significa partecipare alla costruzione di contesti di significato. Si dovrebbe aspettare che il bambino possa entrare nel mondo codificato dell’adulto, cosicché il bambino possa imparare a parlare con i suoni e le parole di “un altro”. Si procede con lui senza precipitare, per non anticipare e forzare su nozioni che il bambino potrebbe non ricevere ed integrare.
Il riabilitatore è calmo e vigile. Non è propositivo perché sa che deve considerare i due assiomi dello spazio e del tempo investiti dal bambino. Rispetta i tempi ed i modi del bambino senza l’assillo di conseguire un risultato.
Attendere è un atto terapeutico perché il riabilitatore pone sul bambino uno sguardo partecipe e rispettoso.
A tale proposito Massimo Recalcati nel libro “Le mani della madre”, descrive l’attesa come: attendere, non lasciarsi sopraffare dal tempo, resistere, non essere bruciati dall’impazienza. (pagina 24). Ma è un’attesa speciale, non è attesa di qualcosa: di un treno o di un anniversario, di un concerto o di un contratto. … è attraversata da un’incognita: non si sa mai cosa o chi si attende, non si sa mai come sarà il tempo alla fine dell’attesa. L’attesa scompagina il già conosciuto, il già saputo, il già visto sospendendo ogni nostro ideale di padronanza. Una quota di incertezza attraversa sempre l’attesa dell’Altro anche quando crediamo di conoscerlo bene: sarà ancora l’Altro che conosco, che credo di conoscere, che ho imparato a conoscere?
…appare come un principio di alterità che rende possibile un “altro mondo”. (pag.25)
La Stazione è una fase complessa per il logopedista che ha il preciso mandato di riabilitare il linguaggio. Nella fase dell’attesa, dentro di lui si muovono alcuni timori: di non essere pienamente nel proprio ruolo professionale, di perdere tempo, di lasciare il bambino troppo libero.
Per il logopedista che segue l’approccio PRL, la Stazione equivale, nonostante l’esperienza, ad una fase di incertezza e di dubbi rispetto al modo di incontrare il bambino-persona e ai tempi necessari per favorire la maturazione di determinate capacità.
“L’attesa è una sospensione dell’agire, ma non della presenza e dell’impegno …e questo non comporta una minor ricchezza. Il rieducatore PRL deve, per uscire bene da questa situazione, dimenticare che egli è presente solamente per dare, ma anche per prendere. L’inquietudine…sarà permessa solo quando non accade nulla, ma questo avviene di rado” (Chassagny).
Prendiamo il caso di Luigi. La logopedista scrive: “Luigi ha 5 anni e mezzo. Presenta una storia clinica di importante prematurità e di stress respiratorio. La situazione attuale è caratterizzata da discreto ritardo psicomotorio e di linguaggio e da comportamento oppositivo. Arriva in terapia logopedica su richiesta della neuropsichiatra infantile per una complessa disorganizzazione dell’assetto comunicativo.
Alla prima seduta del ciclo entra con la madre. Propongo le presentazioni di rito: gli dico il mio nome, gli chiedo se sa perché è venuto, se è preoccupato. Luigi non mi guarda, dietro gli occhiali lo sguardo sfugge, si nasconde dietro la mamma, le sta addosso, la mette tra me e lui …. Poi si dirige verso la casetta … La madre preoccupata dice parole di giustificazione, con grande amore e tenerezza verso questo bambino sopravvissuto a una battaglia difficile all’inizio della sua vita. Dico alla madre che staremo insieme in stanza cercando per ora di conoscerci; io ascolterò, quando Luigi sarà pronto per dirle, le sue paroline, il suo linguaggio. Mi avvicino alla casetta e osservo ciò che L. fa: esplora gli oggetti, i mobili, li prende, li avvicina agli occhi, borbotta qualcosa, li ripone. Io e la madre facciamo qualche commento su quello che vediamo, gli diciamo il nome di alcuni oggetti, condividiamo tra noi adulte qualche osservazione. Se mi avvicino troppo il bambino si scosta e ritorna a rifugiarsi dalla madre. Rivolta al bambino, ma anche per tranquillizzare la madre, commento: “So quanto è difficile stare con persone che non si conoscono e che non si sa bene cosa vogliano.” Ricordo a Luigi che io mi occupo delle parole dei bambini, e che insieme, quando se la sentirà, ascolterò anche le sue parole” …”
La logopedista sa che ci vorrà del tempo ma già in questa prima seduta il bambino ha raccontato molto di sé. Ha mostrato l’attaccamento alla madre, la paura dell’estraneo, la difficoltà di agganciare la comunicazione visiva, di triangolare con lo sguardo, la mancanza di un gioco simbolico. Ma anche la giusta prudenza nell’incontro con un estraneo, la buona protezione che sente dalla madre e che ricerca, la curiosità per situazioni e oggetti nuovi. Anche nelle sedute successive non è possibile avvicinarsi troppo a lui, lentamente e sottovoce compaiono le parole e la logopedista scopre, con sorpresa, un linguaggio meglio organizzato di quanto si aspettasse osservandolo giocare e relazionarsi, infatti il bambino produce già frasi complete, a volte disorganizzate fonologicamente, altre volte corrette.
“…solo nel giocare è possibile la comunicazione e si deve permettere al bambino in mezzo ai giocattoli, sul pavimento di comunicare una successione di idee, di pensieri, di impulsi, di sensazioni che non debbano essere necessariamente collegate, senza avere per forza un filo conduttore significativo. (Winnicott)
I TEMPI DELLA STAZIONE
Proprio perché è difficile raggiungere l’originalità del bambino, la Stazione può richiedere molto tempo. Quando sembra che il bambino abbia raggiunto la capacità di esplicitare i suoi pensieri più originali e la voglia di condividerli con il terapista, tramite un codice simbolico raffinato (espressione verbale, racconti, disegno, scrittura), si passa alla fase della Conciliazione. Quando ciò accade spesso le difficoltà si sciolgono e possiamo assistere ad un recupero spontaneo delle funzioni, oppure in modo naturale, possiamo passare ad affrontare il sintomo con tecniche mirate.
Il passaggio dalla Stazione alla Conciliazione è personale, proprio di ogni bambino: non segue la gerarchia ideale sopra descritta, ma la sua evoluzione è varia. Spesso è un percorso a spirale, con delle regressioni, degli stop e degli avanzamenti imprevedibili. Si possono dunque aprire diversi scenari.
Il logopedista può decidere di proporre al bambino un livello più strutturato di lavoro, rispetto a quello spontaneo; in un preciso istante egli si prende il rischio di fare una scelta attiva, di produrre una lieve forzatura, di tentare una proposta più elaborata, ma sempre vigila le reazioni del bambino e la sua disponibilità ad integrare in quel momento una proposta più complessa.
Umberta Telfener nel libro “La terapia come narrazione” (1992) dice: “Non si ritiene ci siano regole da scoprire bensì ipotesi da costruire, premesse da ipotizzare, punti di vista da far emergere, differenze da creare. Sia gli utenti che i terapeuti vengono considerati tra loro interconnessi nella costruzione dei significati”. E l’esperienza intersoggettiva favorisce i processi mentali visti come interazione non come eventi intraindividuali”.
Riportiamo di seguito due esempi significativi:
Giulia è nata in Sud America e vive in Italia dall’età di 35 mesi dopo l’adozione. È arrivata al Servizio NPI a 5 anni per ritardo di linguaggio e balbuzie.
Il trattamento logopedico inizia a 5 anni e 5 mesi. Giulia inizialmente sembra molto disponibile a lavorare e ad affrontare le sue difficoltà tanto che la logopedista propone attività mirate. Ma gli incontri non si svolgono con equilibrio: Giulia accetta di impostare il suono /s/, ma rifiuta gli esercizi di utilizzo del nuovo suono nelle parole. La logopedista percepisce che la situazione non è equilibrata. I disegni della bambina sono sufficientemente precisi, ma i soggetti ripetitivi (la figura umana, il sole, i cuoricini). Inoltre a volte la bambina si rifiuta di entrare in ambulatorio, oppure ha crisi di rabbia con pianto quando la logopedista annuncia la fine della seduta.
In questa seduta la logopedista decide di tornare ad una fase di Stazione: Giulia sceglie il lottino degli animali, la logopedista non spiega le regole e lascia che la bambina si organizzi a suo piacimento: la bambina prende delle cartelle e cerca le sue tessere in silenzio, la logopedista la imita e prende delle tesserine per sé stessa; è un gioco solitario, come due bambini piccoli, che giocano fianco a fianco, ma senza scambio. La logopedista percepisce che è utile stare in questo gioco e che solo aderendo alla modalità proposta dalla bambina si può ripartire per aiutarla ad evolvere nella comunicazione e nel linguaggio.
Già nella stessa seduta entrambe scoprono che se una delle due denomina l’animale che sta cercando, l’altra la può aiutare. Giulia è molto abile e veloce, aiuta la logopedista, ma si fa anche aiutare. Alla fine della seduta si prepara un foglio, che verrà inserito nel quaderno da portare a casa, con le copie delle tessere e i nomi degli animali.
Alessia è giunta al Servizio a 4 anni con un importante disorganizzazione a vari livelli: linguistico, visuo-percettivo, grafo-motorio, attentivo. Nella fase iniziale della terapia, Alessia aveva mostrato per un certo tempo alla logopedista un gioco di alternanza tra mamma/buona e mamma/lupo. La fase della Stazione aveva dunque consentito alla bambina di liberare ed elaborare alcune tensioni interne. Successivamente Alessia era passata ad una fase di conciliazione, dove desiderava cimentarsi nelle sue funzioni deficitarie, allo scopo di poterle migliorare. Un giorno, durante una seduta, la bambina chiede alla terapista di poter giocare come una volta. La logopedista decide però di non tornare a una situazione tanto regressiva, ma le propone di rappresentare una storia attraverso un disegno utilizzando dunque una modalità espressiva diversa, una forma di simbolizzazione più astratta. Sostenendola e guidandola, con domande e con sollecitazioni, la logopedista conduce infine la bambina a elaborare in forma grafica una storia ricca di contenuti ed infine scrive alcune parole-cardine della storia, mostrando così alla bambina nuovi strumenti di espressione quali il disegno e la scrittura.
Il terapista lavora nell’area di sviluppo prossimale/potenziale descritta da Vigotskij; egli sostiene che il ruolo dell’adulto, nell’ambito educativo e riabilitativo, è quello di valutare il livello cui è giunto il bambino e poi di proporre un’attività che favorisca il passaggio ad un livello più evoluto. Vigotskij ritiene inoltre che lo sviluppo linguistico è un fenomeno interindividuale, vale a dire che l’evoluzione cognitiva necessita di uno scambio.
Talvolta accade che, dopo un cert tempo trascorso in terapia, il disturbo del bambino si risolva in modo spontaneo; in questo caso assistiamo ad un recupero naturale delle funzioni, possibile proprio perché è stato dato modo al bambino di esprimersi liberamente. Altre volte sarà necessario passare, nella fase detta della Conciliazione, a proporre sedute più guidate e strutturate e ad utilizzare le tecniche di riabilitazione logopedica mirate a lavorare finalmente sul sintomo.
È raro, ma in alcune situazioni la fase della Stazione non serve e si può avviare da subito la fase della Conciliazione.
Esempio da una seduta.
Michele è un bambino di 5 anni e 4 mesi. A settembre entrerà in prima elementare ed è nella lista d’ attesa per logopedia per la presenza di dislalie multiple. Come per tutti i bambini che devono iniziare la scuola Primaria ha la precedenza e viene chiamato in terapia. Viene fatta la presentazione di rito e viene chiesto al bambino se sa perché è stato portato dalla logopedista. Michele risponde “Non so dire alcune parole, per esempio cala, cudo, pitola (scala, scudo, pistola). Mi prendono in giro, mi insegni? La mamma mi ha detto che tu sai i trucchi.”
Ecco, con questo bambino si parte subito con il modellamento, la logopedista ha fornito schede suggerendo a lui e alla madre modalità d’uso ludico di tale materiale (per esempio organizzare gare a punti cercando di toccare le figure a occhi chiusi). Michele è arrivato in terapia già pronto, conciliato con la possibilità di modificare la sua produzione. In tale situazione da subito, pur lasciando spazio alla spontaneità, è indicato procedere con atti rieducativi diretti.
LE PAROLE CHE SI POSSONO USARE
La fase della Stazione sarà vissuta in modo positivo dal logopedista e dal piccolo paziente se verranno spiegate in modo chiaro alla famiglia le modalità delle sedute.
Quando si inizia un trattamento logopedico è d’obbligo esplicitare in modo chiaro ai genitori e al bambino quali sono gli obiettivi dei nostri incontri.
Faremo attenzione a quali espressioni usiamo quando ci rivolgiamo al bambino la prima volta e a quale sarà il nostro atteggiamento, in quanto tutto ciò definirà il nostro modo di lavorare con lui.
Al bambino si spiegherà il motivo per cui i genitori lo portano da noi usando parole e frasi a lui adatte: “ci incontriamo per migliorare le tue paroline, prima però sarebbe bello conoscerci un po’”.
Si farà percepire, nei modi e nei tempi necessari, la disponibilità ad accogliere le sue attività preferite in un’atmosfera di gioco.
Questo va spiegato ai genitori esplicitando che sarà attraverso le attività di gioco del bambino ed i materiali che il bambino predilige che riusciremo ad agganciare la sua motivazione, a condividere il suo pensiero per rafforzare le sue capacità comunicative, le quali saranno il punto di partenza per giungere a messaggi verbali più chiari.
Si spiegherà che a noi interessa far leva sulle risorse del bambino e non su cosa non funziona e di quanto sia importante scoprire com’ è e di cosa è capace, quando desidera veramente comunicare con noi adulti.
“Procedere alla mobilitazione del bambino, al fine di favorire un atteggiamento di accettazione e di motivazione è fondamentale per qualsiasi intervento terapeutico che altrimenti, se troppo immediato, rischierebbe non solo di portare a scarsi risultati, ma di urtare contro il sintomo in maniera controproducente” (Winnicott?).
CONCLUSIONI
Questa modalità di addentrarci nel mondo dei nostri piccoli pazienti, di sostare e di condividere il piacere di scoprire come ogni bambino si riveli originale e creativo, sollecita emozioni, ci regala sorprese e sorprende il bambino stesso.
“Il linguaggio e l’intelligenza, così come le abilità emozionali, vengono tutte apprese attraverso relazioni interattive che coinvolgono gli scambi affettivi”(Greenspan).
Il periodo della Stazione in PRL è l’inizio del rapporto di rieducazione con il bambino; è un periodo in cui molte cose accadono, in cui il rieducatore si astiene dall’intervenire in modo tecnico, ma è presente “come adulto testimone del lavoro dell’Altro” (Chsasagny 1964).
Per il rieducatore PRL l’astenersi dall’agire con le proprie pratiche riabilitative è una posizione faticosa e difficile, prevede l’allontanare la meta, lo scopo ultimo dell’incontro. Si tratta di lasciare campo libero all’altro perché possa esprimere i suoi messaggi davanti a un adulto competente e consapevole, in grado di accoglierli e di ascoltarli, e che gli permette di socializzarli. E’ un lavoro faticoso e che richiede molto rigore: osservare è ascoltare e guardare l’altro: accettare la possibilità di non comprendere subito tutto dell’altro, sostare in quella che Bion definisce la “capacità negativa” cioè lo stare nell’incomprensibilità, nella difficoltà di comprendere i significati eterogenei che l’altro ci mostra; osservare è restare in attesa con l’altro che i significati maturino e si modifichino nel tempo. Osservare richiede pazienza e tolleranza verso l’alterità: solo in questo modo si crea e si offre all’altro uno spazio in cui esprimersi con la sua originalità, con la sua essenza. È rinunciare al desiderio che l’altro che si affida a noi aderisca ai nostri modelli:
in PRL proponiamo terapie in cui non si richiede all’altro di eseguire movimenti, ma in cui possa esprimere i suoi atti motori, con scopi soggettivamente interessanti e che consentono di identificarsi non con il sé del terapista ma con il proprio sé che in una terapia rispettosa va cercato e trovato dal soggetto.
Stare in un atteggiamento di Stazione, stare in osservazione, prevede una capacità della mente di accettare i cambiamenti, le impreviste evoluzioni dell’osservato e della mente che osserva, “comporta la accettazione del nuovo, la tolleranza dell’ignoto, l’apertura al futuro …” (Pag. 33 Angelo Di Carlo ; quad.n. 4 Borla.
Sta a noi, come dice Chassagny, il coraggio di lasciarli fare.
Se troviamo questo coraggio ed affiniamo le nostre competenze, l’intervento riabilitativo acquista e promuove una potente spinta evolutiva.
Bibliografia
- Bion W.R.(1962) “ Apprendere dall’esperienza”, Roma, Armando Canetti, E;
- Chassagny, C; (1984) “Pedagogia relazionale del linguaggio”, Milano, Editiemme. a cura di Chiesa, C; Munari Poda, D; (2012) “Il posto delle fragole”, Milano, La Vita Felice
- Freud, S; (1917) “Introduzione alla psicanalisi”, Torino, Bollati Boringhieri Greenspan
- Meltzer, D; (1998) “Lo sviluppo kleiniano”, Roma, Borla
- Recalcati, M; (2015) “Le mani della madre”, Milano, Feltrinelli Romanini, M T.
- Sclavi, M;(2003) “Arte di ascoltare e mondi possibili”, Milano, Bruno Mondadori
- Tefelner, U;(1992) Introduzione in White, M; “La terapia come narrazione proposte cliniche” Roma, Astrolabio
- Vallino,D; Macciò, M; (2006) “Essere neonati Osservazioni psicoanalitiche”, Roma, Borla
- Winnicott, D, W; (1975) “Dalla pediatria alla psicanalisi”, Firenze, Martinelli
- Winnicott, D, W; (1974) “Gioco e realtà”, Roma, Armando
- Vigotskij, L.S.; (1966) “Pensiero e linguaggio”, , Giunti-Barbera www.etimo.it: Dizionario etimologico