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Il colloquio logopedico con i genitori

    Di: Agnese Da Rold

    Probabilmente è inutile riproporre le stesse pratiche
    che hanno portato il bambino al fallimento. Quindi il
    rieducatore svolgerà davvero il suo ruolo quando
    faciliterà gli scambi adulti-bambini

    Claude Chassagny

    Il colloquio logopedico con i genitori è un atto riabilitativo, una prassi che dovrebbe diventare abituale nel lavoro con i bambini e le loro famiglie; nella mia esperienza si è consolidato nel tempo, e la modalità di condurlo è stata supportata dalle riflessioni e dagli studi condotti in questi anni di formazione in Pedagogia Relazionale del Linguaggio presso l’Istituto Chassagny di Milano (www.istitutochassagny.com).

    Quello che qui propongo è’ un colloquio di tipo operativo, non iniziale né anamnestico, nato per tentare di sbloccare le terapie che fallivano, quelle in cui i bambini non modificavano il loro assetto linguistico o non superavano i fallimenti scolastici di cui erano protagonisti.

    Interrogarsi sul fallimento di un intervento riabilitativo, rinunciando a liquidare il problema con facili giudizi sulla inadeguatezza dell’utente, prevede di spostare l’ottica da un intervento risolutivo del problema ad un intervento di tipo evolutivo; “la via di uscita fra il rispondere alle esigenze contingenti, mantenendo così le condizioni all’interno delle quali le esigenze si originano, e la negazione dell’aiuto… sta nel condurre l’intervento di aiuto in modo che esso costruisca contemporaneamente anche la competenza della persona che viene aiutata” (Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psicosociali, L. Fruggeri, ed Carocci, pag. 201).

    Il colloquio va effettuato dopo alcune sedute di terapia col bambino; in questo modo esso assume una doppia valenza: restituire ai genitori ciò che è stato osservato e capito e raccogliere la loro idea sulle difficoltà del linguaggio del figlio. Arrivare al colloquio con una piccola storia di relazione col bambino, con quello che si è costruito nelle prime quattro o cinque sedute, significa porsi in modo nuovo con i genitori.

    La dott.ssa Marina Steffenoni invita a “riflettere sull’importanza di giungere a una alleanza terapeutica con i genitori, aiutandoli a trovare la loro competenza genitoriale, tenendo conto che quando si rivolgono a uno specialista dello sviluppo si trovano in una posizione di fallimento, e che con loro quindi si parte sempre con un rapporto segnato dal fallimento”. (Corso di aggiornamento presso ASL 8 Veneto, 2010)

    Alla base del colloquio non ci sono un tecnico competente e dei genitori che ascoltano cosa questi ha da dire, da insegnare, da trasmettere. Il campo di lavoro è completamente diverso. I tre attori sulla scena sono tre adulti competenti ognuno per ciò che gli spetta, che portano lì e mettono a confronto l’idea che ognuno dei tre ha sul bambino. Si tratta di “…organizzare un intervento che non sia finalizzato a dare risposte alle domande degli utenti attraverso un’azione unilaterale, ma contribuisca a costruire un contesto interattivo dal quale possa emergere la facilitazione, il sostegno, il cambiamento per l’utente” (Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psicosociali” di L. Fruggeri ed Carocci).

    Compito dell’operatore è creare il setting specifico e condurre il colloquio su binari peculiari: egli deve essere competente per quanto gli spetta: deve essere in grado di porre domande e dare risposte, conoscere l’evoluzione linguistica tipica, capire se la situazione di un bambino si colloca nell’ambito di un ritardo o di una devianza.

    La nuova sfida che la riabilitazione deve affrontare è quella di trovare un linguaggio peculiare per descriversi, trasmettendo il più possibile quello che si fa operativamente, cioè l’esperienza che si matura nel campo diretto della riabilitazione. La conduzione del colloquio, che è “uno strumento di lavoro all’interno di un trattamento … dove si lavora attraverso la comunicazione linguistica” (da:Valutazione Linguaggio e Comunicazione, Lena, Pinton, Trombetti, Carocci Faber 2004, pag 121), deve seguire delle linee guida.

    Con l’esperienza mi sono resa conto di aspetti dello sviluppo del bambino che sono spesso fragili quando in discussione c’è una disarmonia della comunicazione. Quando conduco un colloquio rifletto insieme ai genitori su alcuni passaggi evolutivi avvenuti col loro bambino. Focalizzo l’attenzione su quali siano state le prime modalità comunicative con cui il bambino è stato accolto nella loro vita.

    La nascita di un bambino fornisce ai genitori una spinta verso cambiamenti positivi. Rappresenta le loro speranze, i loro desideri più profondi… spesso può essere vissuta come una rinascita psicologica per i genitori. (M. Steffenoni, Il lavoro con i genitori: un cammino di alleanza e di condivisione, relazione, Convegno PRL 2003).

    Per una madre e per un padre, la cui funzione entra subito in campo nel gioco dei ruoli, la nascita del bambino può coincidere con particolari situazioni emotive; ho riscontrato che spesso la disfunzione della comunicazione parte da situazioni di eccezionale stress emotivo dei genitori. 

    Mi sto riferendo a bambini che non presentano delle sindromi o delle lesioni intervenute a modificare lo sviluppo atteso. Anche in questi casi il colloquio riabilitativo con i genitori è a mio avviso fondamentale, ma si inserisce in programmi riabilitativi più complessi e multidisciplinari. Negli altri casi è possibile che ad impedire al piccolo di accedere ai passaggi successivi nell’evoluzione sia stata l’interruzione del filo comunicativo, del gioco degli occhi, un’alterazione della spontanea capacità di accudire i neonati che ci caratterizza biologicamente come specie.

    Cosa succede, per esempio, se durante il periodo dell’allattamento la madre è depressa per un recente e grave lutto, e non riesce a godere del bambino che tiene in braccio e nutre: quali sono le conseguenze nella capacità di alternanza dei turni nella comunicazione? 

    Ad impedire l’evoluzione, può essere il fatto che la costruzione di un gioco comunicativo tra la madre e il bambino sia troppo intrisa delle voci di antenati, dei “fantasmi nella camera dei bambini” di cui parla S. Fraiberg (1999), e che le fantasie genitoriali proiettate sul bambino siano tali da rallentarne lo sviluppo.
    Spesso i neonati occupano nelle fantasie dei genitori il posto lasciato vuoto dal decesso dei propri genitori o di altri figli; sovente i bambini che vengono da noi sono diventati luoghi di compenso affettivo e rimangono imbrigliati nei desideri dei genitori.

    Sappiamo tutti l’importanza che ha la comunicazione nei primi mesi di vita per il successivo sviluppo del linguaggio (Stern, Winnicott, Bion).

    Si può obiettare che ci sono bambini gravemente deprivati nei primi mesi di vita che sviluppano un linguaggio e spesso anche una comunicazione normali.

    Questo, per fortuna, è vero, ma lo è altrettanto il fatto che nelle fragilità evolutive, nelle storie dei bambini che si rivolgono a specialisti dello sviluppo, per ri–aggiustare il loro assetto comunicativo, talvolta si riscontrano tracce di eventi particolari e traumatici che riguardano i genitori. Si tratta di fatti che hanno posto il bambino che porta a noi la difficoltà di linguaggio, in una particolare posizione simbolica che è importante andare a guardare con i genitori.

    Quando dico guardare intendo proprio porsi lì col genitore a osservare insieme a lui i movimenti emotivi che hanno accompagnato l’arrivo del piccolo. È opportuno riferirsi al momento del concepimento, al periodo immediatamente precedente e al primo anno di vita del bambino.

    Lo ripeto: sono stati i fallimenti di alcune terapie, la mancata evoluzione del linguaggio dei piccoli nonostante i trattamenti svolti, a farmi incontrare i genitori e riflettere con loro su cosa impedisse ai loro bambini di progredire. 

    Vi riferisco alcuni particolari emersi nei colloqui con i genitori di bambini con i quali le terapie non funzionavano:

    *T. 6 anni. Presenta un importante disordine fonetico-fonologico. Ha seguito numerosi cicli di logopedia con una esperta collega; i sintomi resistono ed è ormai il tempo della scuola elementare. Al colloquio che effettuo con entrambi i genitori dopo le prime sedute la madre racconta con emozione di essere portatrice sana di distrofia muscolare. Non aveva mai parlato nei colloqui con gli altri operatori del fatto che il figlio, primo maschio nato vivo da generazioni, era da lei, dal marito e da tutta la famiglia materna vissuto come miracolato, come un “Gesù Bambino”; me ne parla riflettendo quando chiedo: “ma secondo voi che cosa impedisce a T. di evolvere?…”

    *R. 3 anni. Presenta un importante ritardo psicomotorio, della comunicazione e del linguaggio. È seguito da una psicomotricista ma il trattamento non pare consenta evoluzione. Poco prima dalla sua nascita muore la sorella maggiore della madre…

    *A. balbuziente di 4 anni. Inizialmente i genitori riferiscono la comparsa della balbuzie associandola a un trauma per una importante lite allo stadio di cui il bambino è stato testimone. Al successivo colloquio riferiranno di un grave lutto che li ha funestati quando il piccolo aveva 2 anni per la morte in un tragico incidente di entrambi i giovani nonni paterni…

    Il percorso che faccio con i genitori, riflettendo sulla loro storia col bambino, dopo aver spiegato loro l’importanza che questa ha per il mio lavoro, li indirizza a riflettere su alcuni passaggi. Solitamente i genitori diventano attivi nel colloquio; il fatto di collaborare con operatori a cui hanno affidato il loro bambino li rassicura: importante è trovare la strada per farli sentire non giudicati, ma in un ambito in cui insieme si cercano i nodi su cui riflettere per favorire l’evoluzione del figlio.

    I genitori raccontano se è stato un bambino desiderato, descrivono un po’ l’assetto familiare, l’ordine di genitura. Spesso, ma non sempre, parlano spontaneamente della loro storia.

    È importante lasciar parlare i genitori, ascoltarli e far ascoltare loro le parole che dicono, poiché spesso sono parole che già contengono molte risposte alle domande che rivolgerebbero allo specialista; spesso sono inconsapevoli della forza dirompente delle emozioni, dell’importanza che alcune delle vicende che raccontano ha avuto nella loro vita e in quella del loro figlio: è bene perciò ripetere qualche volta le loro parole, in forma di rispecchiamento.

    Spesso i genitori riferiscono episodi accaduti al figlio, nel primo anno di vita, che hanno creato in loro particolare apprensione. A volte sono eventi che si sono completamente risolti (per esempio bambini che hanno camminato tardi, o che crescevano poco), ma che hanno lasciato una traccia nel vissuto del genitore rispetto al figlio, come se permanesse una incertezza sulla sua adeguatezza. Inoltre, in un colloquio libero, i genitori riferiscono solo i ricordi che sono rimasti con chiarezza nella memoria.

    Il genitore può essere sconcertato quando deve rispondere a domande tipo: “Quando il suo bambino ha detto le prime parole?”.

    Spesso le mamme lo hanno scritto in un diario del primo anno di vita del figlio, ma dati così precisi non restano sempre nella memoria e a volte si confezionano, al momento delle anamnesi, risposte di buon senso, a scavalco tra il vero (ciò che è successo) e il giusto (più o meno quello che si sa che deve succedere).

    Ogni genitore però trova senza problemi il ricordo di cose che lo hanno intrigato emotivamente.

    Altri punti di riflessione che frequentemente emergono riguardano il sonno, l’alimentazione e le autonomie rispetto all’età della consultazione.

    Se nel corso del colloquio si è creato un clima di fiducia, di rispetto, di non giudizio, se l’operatore accoglie il racconto del genitore e gli propone alcune riflessioni (specialmente sul come a volte sia difficile la strada del genitore che nell’attraversare sue preoccupazioni e paure per arrivare a consentire lo sviluppo del figlio) sono gli stessi genitori a darsi risposte o a porsi domande.

    È vero, spesso la strada più breve è chiedere allo specialista cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. 

    Su questo punto negli anni ho imparato a non lasciare spazio alla preoccupazione di apparire competente. È ovvio che io ho idea di cosa sia meglio o peggio fare, ma anche ogni genitore ce l’ha ed è su quelle sue idee che bisogna riflettere, sulle sue competenze, perché è solo su quelle che il genitore stesso può fare conto.

    Quindi i punti salienti da sollecitare nel colloquio riguardano l’arrivo del piccolo nella vita dei genitori, il primo incontro e il rapporto con lui nel primo anno di vita, i momenti critici particolari, il sonno, l’alimentazione, le autonomie.

    Perché proprio questi sono i nodi critici di un colloquio di tipo operativo che definisco logopedico?

    Per il motivo che un’alterazione della relazione nel rapporto col proprio figlio, nel primo anno vita, può compromettere lo sviluppo successivo del linguaggio, o alterare alcune delle caratteriste salienti per una buona comunicazione.

    Pensiamo ai bambini che non guardano l’altro: dove nasce la comunicazione tra umani se non dallo scambio visivo? E come si struttura questo se una madre depressa, per qualsiasi causa, non può, durante le prime fasi di relazione con suo piccolo, dedicargli una buona quantità di sguardi, accompagnati da quelle parole amorevoli che contengono il bambino in un nuovo uovo verbale (una nuova pelle che lo difende dall’esterno e lo rassicura)?

    Pensiamo ai bambini che non sanno rispettare i turni di conversazione, abilità che nasce nel rispetto dei turni di suzione del latte e ascolto della madre che parla al piccolo. Se durante l’allattamento le comunicazioni della madre sono fuorviate da sentimenti angosciosi, come arrivano al piccolo?

    Io non sostengo e non suggerisco l’idea che un colloquio sia una soluzione a situazioni come quelle descritte, ma lo stare lì con i genitori a riflettere su alcuni eventi importanti e significativi della loro vita può aiutare a sbloccare le terapie che si incagliano, che non evolvono.

    È come se vi fosse una domanda che ruota intorno a qualcuno di questi punti che ho citato e che il parlarne liberasse in qualche misura delle buone energie per progredire.

    Durante il colloquio io non scrivo quasi mai le informazioni che ricevo perché il farlo può bloccare i pensieri di chi parla; ascolto, faccio i commenti che mi paiono importanti per tornare al focus del nostro incontro, che è lo sviluppo armonico del bambino.

    Trascrivo in un secondo momento ciò che mi pare importante registrare. 

    Sono colloqui che prevedono una preparazione specifica linguistica e una preparazione globale rispetto allo sviluppo del pensiero e del linguaggio.

    Se, rispetto alla evoluzione del bambino, è sempre importante chiedere ai genitori cosa pensano del linguaggio del loro figlio, è chiaro che un operatore deve però essere disponibile e preparato a rispondere alle loro domande.

    Vorrei anche sottolineare che ogni coppia, ogni famiglia, ha i suoi segreti, parti nascoste, oscure, che a buon diritto sono taciute. Di questo è importante essere consapevoli, rispettosi e accoglienti, accoglienti proprio anche di questo non detto.

    La nostra è una piccola parte nella vita delle persone, cercare di svolgerla al meglio è una fatica che va fatta con autenticità e coraggio. Anche con il coraggio di sbagliare. Io trovo che, senza improvvisare, con l’umiltà di chiedere aiuto in supervisione, il colloquio con i genitori sia quasi sempre un momento topico nella terapia coi bambini. Se il colloquio è condotto bene, i genitori, che nel rivolgersi a uno specialista spesso hanno gettato la spugna rispetto alle loro competenze, si rimettono a riflettere sulla storia loro e su quella col loro bambino. Nelle sedute successive al colloquio la situazione del bambino cambia spesso rapidamente, quasi sempre in senso positivo e vi è un riappropriarsi di competenza genitoriale notevole.

    Caso clinico

    Presento a titolo esemplificativo il caso di una bambina portatami per un problema banale, quale il rotacismo.

    Scelgo proprio questa bambina perché rende evidente come la dinamica comunicativa tra i componenti della famiglia possa imbrigliare l’evoluzione, condizionarla, renderla difficile. 

    Dai genitori di P., che ha 5 anni, il rotacismo della figlia è sentito come un problema molto pressante. La bambina era già stata vista da un foniatra che aveva ritenuto inopportuno procedere con un intervento riabilitativo. Il medico aveva rassicurato la madre e dato alcuni utili consigli.

    La mamma, però, continua ad essere molto preoccupata per il linguaggio della figlia e insiste perché prenda in trattamento la bambina.

    Al primo incontro arrivano madre e bambina.
    Mentre la mamma mi racconta di P. e del suo linguaggio la bambina ha scelto, tra le diverse proposte da me fatte, quella di disegnare.

    Quando la bambina parla, noto che fa con la lingua una specie di capriola ogni volta che incontra una “erre” nel suo parlato. È così che ricevo una strana impressione.

    Mentre l’osservo e l’ascolto mi chiedo perché non abbiano funzionato con lei i buoni consigli dati dal foniatra, visto che davvero il fonema è lì lì per prodursi; al contrario si è prodotta una situazione paradossale in cui la bambina fa una smorfia ogni qualvolta incontra il fonema /r/. Concludo il primo colloquio con questa coppia madre-figlia proponendo un ciclo di dieci sedute. “C’è la possibilità che la erre non compaia, spiego alla madre, ma sarò io ad occuparmene”.

    P. è secondogenita, ha un fratello più grande che ha otto anni e un fratellino più piccolo, che ha 2 anni. Avvio il lavoro pensando che il rotacismo non sia un problema ma che l’obiettivo sia allentare la preoccupazione della madre.

    In terapia la “erre” proprio non si deve nominare, perché subito tornano le capriole con la lingua che viene protrusa, mentre quando P. non ci pensa e parla spontaneamente il fonema è quasi lì per essere pronunciato. Ecco, però, che durante il gioco in seduta compare un nuovo aspetto: troppo spesso le comunicazioni sono non intelligibili, scivolano in un baby-talk pluridislalico e devo chiedere di riformulare le frasi per poter procedere nel gioco o nell’attività di disegno che ha scelto. Inutile sottolineare che la capacità di parlare correttamente c’è e che basta la mia richiesta perché P. parli con chiarezza e con un erre lieve lieve.

    Forse è questo linguaggio regressivo a preoccupare davvero i genitori. Con questi elementi, e con una mia ipotesi sul linguaggio regressivo, che penso sia legato alla presenza del fratellino piccolo, alla quarta seduta propongo l’incontro ai genitori. Il mio focus sarà sentire loro parlare di P. e capire dove la bambina si colloca nell’immaginario genitoriale, quali sono le autonomie, quali le difficoltà. Ecco uno stralcio del colloquio.

    Chiedo: “Mi raccontate come è la vostra storia con P.? Questo mi aiuta nel lavoro con lei”. La mamma di P. è una donna minuta, biondina, con gli occhiali… assomiglia molto alla figlia! Sia la madre che il padre parlano volentieri, descrivono la bambina, il primo anno di vita, cosa mangiava, come dormiva, come è andata quando è nato il fratellino, cosa le piace… E nello scambio di parole io introduco l’elemento della regressione, e lo dico formulando la frase con loro in modo strano.

    Il linguaggio è infatti un elemento potentissimo dell’umano, varia da contesto a contesto, da situazione a situazione, si stiracchia, si impreziosisce, si impoverisce, si mette davvero al servizio della situazione adattandosi in maniera impressionante alle diverse istanze.

    Ricordo che il prof. De Mauro parlava di questo in una lezione magistrale sulla semantica, quando indicava nell’universalismo della semantica di una lingua quella caratteristica per cui le parole si adattano ai tempi, ai modi ai luoghi e alle caratteristiche delle diverse persone che le usano; le parole in questa accezione cambiano il loro significato nel tempo (vedi la parola “macchina” che in italiano è diventata sinonimo di “automobile” per esempio).

    Questa caratteristica del vocabolario porta a una mancanza di limiti nel campo della lingua, il che consente di dare sempre voce alle nostre esperienze. È una caratteristica della nostra specie, che consente una altissima adattabilità rispetto ad altre specie.

    Estensibilità, quindi, della creatività linguistica, che comporta anche alcuni rischi, primo fra tutti quello di creare dei fraintendimenti; è necessario quindi chiedere a volte agli interlocutori cosa intendano con una certa parola.

    Dicevo che nel colloquio formulo la frase con cui intendo parlare della regressione linguistica di P. in modo strano e cioè dicendo: “Io di P. ho visto questo suo andare avanti e indietro col linguaggio, a volte è un linguaggio competente per l’età, a volte regredisce, torna piccola, va su e giù così, non so se mi spiego”.

    È a sorpresa che a questo punto la madre mi interrompe e comincia a piangere in maniera che non riesce a contenere. Tra le lacrime dice: “Sono io questa, sono io quella che lei descrive; lo sa chi sono? – mi dice il suo cognome – Si ricorda la storia di mia sorella? Mia sorella, più piccola di me, ebbe un incidente in montagna: è scivolata ma è morto il suo fidanzato che l’aveva soccorsa. Mia sorella non ha retto al senso di colpa e si è ammazzata. Io, mi scusi, non riesco a smettere di piangere, io li guardo questi miei figli, e sono terrorizzata, voglio che crescano ma ho paura e voglio che restino piccoli. Davvero è così, mi alzo la notte, vado a guardarli mentre dormono e spero che non crescano. Ma poi ho paura anche di questi pensieri. Sono io che vado avanti e indietro con i pensieri e che vorrei crescessero ma anche no, non sono brava, non sono una brava mamma”. Il marito l’ascolta con un atteggiamento di grande comprensione e tenerezza, consolandola con discreti gesti affettuosi.

    Ascolto questa madre e le dico che spesso crescere i figli ci costringe a fare i conti con le nostre paure, ma che il chiedere aiuto agli specialisti, come loro hanno fatto, è porsi il problema di aprire la strada alla crescita.

    Concludo il colloquio consigliando alla madre di pensare alla possibilità di dedicare un po’ di tempo alla cura del suo dolore, suggerendole la possibilità di farsi aiutare e indicandole uno specialista.

    Proseguo le sedute con P. rassicurandola sul suo linguaggio, suggerendole durante le sedute ciò che non deve fare (e cioè gli sforzi per dire la “erre”) e sollecitandola all’autoascolto delle sue produzioni corrette.

    Alla fine del ciclo ciò che è cambiato non è la “erre” ma la scomparsa del linguaggio infantile. La madre dirà che la bambina è più serena, che anche le insegnanti hanno segnalato un buon cambiamento e che ora si capisce sempre ciò che dice.

    Aggiunge anche che il colloquio le è servito e che deciderà se farsi aiutare da qualcuno.

    Segnala la dott.ssa M. Steffenoni “…Un sintomo va letto, ascoltato, capito, prima che essere toccato e modificato”. (Corsi di formazione in PRL) Un rotacismo è senza dubbio uno dei problemi minori che si incontrano in logopedia. Eppure può portare un messaggio di disagio più ampio, può amplificarsi lui stesso come sintomo se non viene ascoltato. 

    Un colloquio pensato come uno spazio di ascolto dato ai genitori è a mio parere parte integrante della terapia logopedica.

    Castelfranco Veneto, 15 aprile 2011

    Bibliografia

    • Chassagny C., Pedagogia Relazionale del Linguaggio, Editiemme, Milano, 1984 (reperibile presso www.istitutochassagny.com)
    • De Mauro T., Lezioni di linguistica teorica, Laterza, 2005
    • Fruggeri L., Famiglie,Dinamiche interpersonali e processi psicosociali, pp. 179 – 215, Carocci, 2007
    • Gobbo D., Riabilitazione e psicoanalisi, Borla, 2004
    • Lena, Pinton, Trombetti., Valutazione Linguaggio e Comunicazione, pp. 113-142, Carrocci Faber, 2004
    • Lots J., Pedagogia Relazionale del Linguaggio: un approccio relazionale alla rieducazione logopedica, in I Care anno 34 n°3, luglio /settembre 2009
    • Semi A. A., Tecnica del colloquio, Raffaello Cortina, Milano, 1985
    • Steffenoni M., Il lavoro con i genitori: un cammino di alleanza e di condivisione, Convegno Nazionale dipedagogia Relazionale del Linguaggio, Istituto Chassagny, Verona, 2003
    • Winnicott D. W., I bambini e le loro madri, Raffaello Cortina, Milano, 1987

    DA ROLD Agnese
    Logopedista PRL e Tecniche di Associazione, animatrice corsi PRL e TA
    U.O. ASL 8 – Asolo – Tv