Le potenzialità nel trattamento logopedico
Di: Da Rold, Chiaia, De Zordi, Gregorat,
Foletti, Marabese, Mazzoldi, Riolfo
Questo lavoro è il frutto delle riflessioni emerse da un gruppo di ricerca di logopediste formate in Pedagogia Relazionale del Linguaggio (PRL), con esperienza pluriennale nella riabilitazione dei Disturbi del linguaggio e dell’apprendimento in età evolutiva, coordinato dalla dott.ssa Agnese Da Rold: Fiammetta Chiaia, Enrica De Zordi, Magda Gregorat, Raffaela Foletti, Elisa Marabese, Donatella Mazzoldi e Maria Luisa Riolfo.
Lo scopo è quello di dare una forma scritta e trasmissibile alla modalità di lavoro con bambini affetti da disturbi del linguaggio e dell’apprendimento, acquisita dalle logopediste PRL che utilizzano il gioco come strumento terapeutico nella riabilitazione logopedica.
La Pedagogia Relazionale del Linguaggio nasce dalle riflessioni di Claude Chassagny, pedagogo e psicoanalista che, nel corso della sua vita, si è occupato di bambini con difficoltà nell’area della comunicazione e del linguaggio. In Italia la PRL è stata portata avanti dall’Istituto Chassagny grazie a Marina Steffenoni ed Eliane Piguet che hanno tenuto vari Corsi triennali di formazione in PRL, Seminari annuali, attività di supervisione e gruppi di ricerca volti a logopedisti, fisioterapisti e psicomotricisti. Tuttora la formazione prosegue con corsi triennali di Pedagogia Relazionale del Linguaggio (PRL) e di Tecnica di Associazione (TA) per la rieducazione della letto-scrittura, tenuti dalle dottoresse Marina Steffenoni, Agnese Da Rold e Josiane Lots (www.istitutochassagny.it).
La PRL prevede un’unione tra i contenuti della relazione terapista-paziente e le tecniche riabilitative. Senza rifiutare la tecnica, ma mettendola al giusto posto, evitando che agisca come uno schermo tra il rieducatore e il bambino, la PRL diventa un “modo di essere” del terapista. Ciò che differenzia la seduta PRL da una terapia tradizionale è che nel campo ci sono due teste che lavorano, pensano, costruiscono una situazione che può favorire la riorganizzazione linguistica; il soggetto non è accolto in una situazione preparata a priori, non sono somministrati esercizi per “aggiustare” ciò che non è corretto. Il terapista accoglie un soggetto a cui viene dato tempo e spazio per raccontarsi e capirsi; il logopedista PRL non si occupa solo del linguaggio ma anche della storia che il soggetto porta, “ed è a partire dal racconto che si opera con la tecnica di cui la logopedista è esperta. La tecnica in PRL è al servizio delle due teste che si incontrano in un luogo, la stanza di terapia, per raggiungere un obiettivo che sarà il linguaggio corretto” (Citazione da Marina Steffenoni in seminario di ricerca PRL, aprile 2014).
Il racconto, nel caso del bambino, può essere detto verbalmente, oppure espresso nella modalità che il bambino può attuare in quel momento e quindi agito, giocato o disegnato, come vedremo nei casi di seguito raccontati.
L’approfondimento teorico è frutto di una ricerca bibliografica su testi riguardanti il gioco.
La parte applicativa è il risultato della riflessione del gruppo che ha arricchito la trattazione con brevi stralci di sedute di trattamento logopedico con l’intento di riportare un passo significativo ed esemplificativo del concetto evidenziato.
La comunicazione avviene naturalmente, nella conversazione e nella condivisione d’interessi.
Le condizioni necessarie per stimolare l’evoluzione della competenza comunicativa e del linguaggio sono:
- dialogare attraverso il linguaggio/pensiero con il bambino ponendoci come adulti “scaffolder” che, nell’accezione di Bruner (1983), forniscono sostegno, organizzano, attribuiscono significato e scopi all’azione del bambino in un processo di “sintonizzazione accurata” (Snow 1995) rispetto allo sviluppo comunicativo linguistico del bambino;
- facilitare l’acquisizione del linguaggio attraverso la ricomposizione grammaticalmente corretta della produzione del bambino con l’aggiunta di elementi e/o ristrutturazioni della frase (recasting), (Snow 1995), facilitazione che si attua a partire dall’osservazione partecipe, dall’attenzione condivisa, dall’ascolto, dall’accoglienza e dal rispecchiamento;
- stimolare il bambino su qualcosa di motivante ovvero “incontrarlo dove lui è”, nei suoi interessi, nelle sue modalità espressive affinché nasca un movimento condiviso nel piacere di essere / fare insieme.
Parlare ai bambini mentre si eseguono le azioni di vita quotidiana, quindi col supporto del contesto e del movimento, permette di apprendere concetti secondo un processo motorio-sensoriale in cui il movimento rafforza la formazione di concetti, sui quali poi l’adulto metterà le parole.
Se nella nostra terapia partiamo dal gioco spontaneo, diventa naturale e immediato raggiungere le condizioni citate sopra.
Il gioco, in terapia, permette al bambino di proiettare le sue eccedenze emotive e richiede anche il coinvolgimento del corpo che, nei bambini più piccoli, è il mezzo di comunicazione più immediato.
Poi, gradualmente, il bambino inizia ad utilizzare gli oggetti intermedi, che diventano portatori di senso e di comunicazione.
Quando il bambino aggiunge la parola al gioco, ne definisce con più precisione il senso. Questo passaggio è importante nel trattamento logopedico e spesso è questo il processo bloccato nei bambini che ci arrivano in consultazione.
Il bambino arriverà così a rappresentazioni preconsce che portano con sé la sua parola. Il gioco senza linguaggio può essere interpretato svariatamente, mentre la parola restringe il campo simbolico e aumenta la possibilità di condivisione comunicativa.
Attraverso il gioco permettiamo al bambino di esprimere liberamente un contenuto che egli rivela a se stesso mentre lo dice all’altro.
Gli interventi verbali del logopedista hanno lo scopo di sollecitare e rinforzare la comunicazione e il linguaggio, creare l’alleanza e accompagnare i genitori, spiegare le regole della seduta. Non sono mai usati per interpretare.
Il gioco del bambino è come un quadro impressionista, noi fermiamo con le parole le parti alle quali siamo sensibili e traduciamo così un pensiero ancora emergente che può corrispondere a parole per l’arricchimento lessicale o a frasi per lo sviluppo morfosintattico. Si può dare parola anche a emozioni che sentiamo durante il gioco, ma sempre come dato di realtà del vissuto costruito nel corso del gioco. Le parole usate saranno sempre accessibili al bambino e calibrate al livello di comprensione verbale ed espressivo che si vogliono stimolare.
Il logopedista dovrà stare all’erta per essere il più possibile consapevole della qualità e quantità degli interventi verbali, perché a volte l’uso della parola è un modo per non sentirsi solo o per riprendere il controllo emozionale o per riempire un silenzio troppo lungo.
A volte la parola è sollecitata da ansia o da aggressività. Gli interventi del logopedista si possono definire come una sorta di “pedagogia terapeutica”, che tende a tener ancorato il bambino a un’evoluzione comunicativa e linguistica. È evidente come la parola nella riabilitazione, testimoni la relazione, crei legami, metta in moto e faccia evolvere la funzione simbolica.
Il gioco diviene in quest’ottica, uno strumento terapeutico poiché:
- Permette l’accoglienza e la conoscenza del bambino, tramite uno “sguardo” partecipe e rispettoso;
- Permette di creare la base di alleanza e di fiducia sulla quale potremmo innestare l’atto terapeutico volto all’evoluzione;
- Diventa organizzatore del pensiero, creatore di categorie, di concetti e di nuovi comportamenti, prerequisito indispensabile per la nascita e l’evoluzione del linguaggio e dell’apprendimento scolastico;
- Diventa una potente opportunità, volta a favorire l’evoluzione dei livelli specifici del linguaggio (fonologico, lessicale, morfosintattico, narrativo e pragmatico), che il logopedista stimola utilizzando l’atto che il bambino spontaneamente propone nel gioco.
Di seguito ci proponiamo di declinare con alcuni esempi i principi sopra elencati.
Il gioco permette l’accoglienza e la conoscenza del bambino, tramite uno “sguardo” partecipe e rispettoso.
Il gioco è una forma di linguaggio per i bambini, probabilmente la più naturale e profonda. Un bambino che non gioca è come fosse muto al suo mondo interno. Come potrebbe perciò comunicare usando un linguaggio verbale completo e raffinato?
Per questo il logopedista mantiene l’attenzione sul gioco spontaneo, per dare ai bambini la possibilità di creare significati personali.
Nel gioco, svolto in relazione con il logopedista, il bambino può dare vita a ciò che è “sommerso”, taciuto, può trovare contenuti nuovi che nemmeno conosce e che non sa ancora di poter comunicare. Per l’adulto c’è il rischio di essere trascinato in territori sconosciuti e a volte inquietanti. Ma è un rischio che va corso perché il gioco e il linguaggio verbale che lo accompagna, permettono di esprimere il mondo interno.
Prendiamo ad esempio il caso di Sara, sei anni e sei mesi, affetta da disprassia verbale.
Il trattamento logopedico inizia in novembre, la classe prima elementare è iniziata da poco per S., la frequenza al trattamento è di una volta la settimana e la famiglia è costante nell’accompagnarla.
In seduta la bambina è sempre molto riservata, non ha iniziative comunicative o di gioco che, addirittura, rifiuta. La logopedista prepara quindi, un po’ alla volta, un ricco quaderno con tanti esercizi per l’articolazione e la lettura di sillabe. Ha però sempre presente la necessità di rendere più fluido e fruibile il collegamento tra pensiero e produzione verbale, tra mondo interno e comunicazione. Ad esempio un giorno la bambina porta un disegno da casa; sollecitata da alcune domande, si delinea un personaggio; S. si vivacizza e, di seduta in seduta, si crea una storia a puntate con disegni fatti da S. e il racconto scritto dalla logopedista sugli spunti della bambina.
Il primo gioco spontaneo proposto da S. è quello della maestra: lei “fa” la maestra che scrive sulla lavagna, la logopedista è l’alunna che sbaglia e che è sempre in difficoltà. Sono sedute che impegnano molto la terapista che esce provata e sorpresa di come S. riesca a farla sentire veramente incapace ed eserciti durante il gioco sulla logopedista/alunna un potere che la condiziona molto.
Il tempo di questo gioco si allunga sempre più fino a occupare tutta la seduta.
Nel gioco la “maestra”, col suo potere incontestabile, diventa sempre meno accondiscendente e sempre più arrabbiata. In gennaio, con sollievo della logopedista, S. inizia a usare degli animali di plastica per interpretare i suoi alunni; sarà la logopedista a scrivere e parlare per loro; la bambina in particolare usa un asino e un maiale. Inizia anche a sgridare gli alunni e, cautamente, quasi le scappasse, a volte li insulta.
L’aver accettato di sostare con la bambina in questo tipo di attività, che si è protratta a lungo nel tempo, le ha permesso di evolvere dall’iniziale rifiuto per il gioco a un primo gioco di ruolo, all’uso simbolico di oggetti che hanno permesso una rappresentazione del mondo interno più elevata.
L’uso di oggetti-giocattolo, oggetti rappresentativi, sarà il precursore per l’utilizzo di simboli sempre più astratti, precursori di linguaggio narrativo, disegno e linguaggio scritto.
Il gioco permette di creare la base di alleanza e di fiducia sulla quale potremmo innestare l’atto terapeutico volto all’evoluzione.
Il linguaggio, le parole, sono dappertutto; partire dalle produzioni del bambino, attendere le sue parole, ascoltare i suoi silenzi, saper ascoltare, guardare e lasciar riempire lo spazio della terapia con i suoi contenuti: questo dovrebbe saper fare l’adulto che per professione si occupa di disturbo della comunicazione; dovrebbe saper attendere.
L’esperienza, l’aver lavorato per tanti anni con i bambini utilizzando il metodo PRL come linea base, ci ha dimostrato che il bambino porta attraverso il gioco o attraverso le altre attività da lui scelte, un mondo di parole, suoni, frasi e racconti.
Nell’approccio PRL, il terapista sente quando il bambino è pronto, percepisce il momento in cui egli è giunto alla fase della “conciliazione”, solo allora potrà, oltre che ascoltare il significato e il senso delle sue comunicazioni, intervenire e fare proposte specifiche. Questo “intervenire” può anche accadere al primo incontro, come può succedere che si debba attendere a lungo senza compiere alcun atto specifico perché il bambino non è pronto a riceverlo.
Ecco a titolo esemplificativo il caso di Giulio: Giulio era già dall’età di tre anni in trattamento per ritardo specifico del linguaggio espressivo; la presa in carico coincideva con la nascita di un fratellino.
Dopo alcuni mesi il bambino è coinvolto in un grave incidente d’auto nel quale muore la madre; oltre ad alcuni interventi di sostegno psicologico rivolti sia al padre che al bambino, a G. viene proposto un trattamento con una logopedista PRL.
Quando inizia il nuovo trattamento, intorno a questo bambino c’è ancora un grande dolore; il trauma dell’incidente coinvolge tutti gli adulti, a partire dal padre, ma riguarda anche i nonni, gli amici, gli insegnanti e gli altri adulti che ruotano intorno alla famiglia e ai bambini.
“I giochi che G. propone sono bellissimi. Durante una seduta abbiamo ritagliato ali per un elefante e una giraffa che volevano volare. G. dice quasi correttamente la parola “elefante”, con /f/ perfetta, fatta spontaneamente mettendo la mano per sentire l’aria che esce dalle labbra come più volte gli avevo mostrato, e fa un gran sorriso… proprio di complicità. Questi due animali volano nel cielo, perdono un’ala, l’elefante attaccava la giraffa… insomma un gran movimento…
Dice ancora “ci” e non il “sì “ che sa ben dire; ma ora viene in seduta sapendo che qui si gioca e si parla e che la logopedista è lì per aiutarlo perché le sue parole siano più comprensibili; lui comincia a desiderarlo, ed anche se ancora non mantiene le correzioni le parole sono più spesso e più facilmente corrette”.
Il gioco diventa organizzatore del pensiero, creatore di categorie, di concetti e di nuovi comportamenti, prerequisito indispensabile per la nascita e l’evoluzione del linguaggio.
All’inizio della terapia il logopedista deve conoscere e accogliere il bambino, ma in seguito la funzione dell’adulto si può capovolgere diventando propositiva perché il bambino, evolvendo nei suoi contenuti, sarà in grado di integrare il sintomo.
Se, prima di proporre interventi diretti sul sintomo, il logopedista è riuscito ad accogliere il mondo interno del bambino, trovando il modo per “dare sollievo” al suo stato d’animo, allora potrà dare istruzioni più facilmente integrabili dal bambino stesso, proprio perché scaturite da un’intesa e da un senso già presenti in seduta. Le proposte strutturate saranno come piccoli semi adatti proprio a quel terreno.
L’approccio PRL consente di operare su obiettivi anche molto specifici partendo da proposte del bambino e rimanendo principalmente in ambito ludico.
Nel caso di Edoardo, sei anni affetto da Sindrome di Duchenne, il linguaggio verbale è in linea con l’età, sono presenti saltuarie dislalie per la cancellazione del fonema /r/; risultano carenti il disegno e l’abilità grafica, e tutti i prerequisiti scolastici verbali che si collocano nella fascia inferiore del 5° centile (test CMF).
Mancano due mesi all’inizio della scuola elementare. È il giorno del suo compleanno. Edoardo chiede alla logopedista se andrà anche lei alla sua festa, in cui ci saranno i nonni e il suo migliore amico; la logopedista è sempre un po’ commossa con lui, ha un controtransfert che la impegna molto emotivamente; la malattia è un pensiero che non riesce a scacciare. Gli spiega che non potrà esserci e gli regala un giochino che ha in studio; è un cagnolino con la lingua lunga sulla quale si lanciano dei cerchietti. “Si fa una gara” – dice il bambino. La logopedista propone di preparare una tabella per segnare i punti, divisa in due parti. Si scrivono i nomi, il gioco si avvia dinamico e allegro, è una vera gara, si vince e si perde. Gli obiettivi che si individuano e che fanno comunque parte a pieno titolo del gioco sono: scrivere il nome, individuando qualche lettera e generalizzandola (la logopedista dice: “questa “E” c’è sia nel tuo che nel mio nome”), segnare i punti da 0 a 5 e contare, individuare, riconoscere e scrivere la cifra finale e i punti di chi perde, imparare e scrivere il simbolo di vittoria e perdita (W diritta e rovescia) rispettare il turno (difficile per lui, soprattutto se sta per perdere).
Alla fine della gara, poiché è il compleanno, disegnano una torta, quella preparata dalla mamma.
Per farlo E. ha bisogno di aiuto perché tende a abbandonare l’attività grafica che non gli dà mai risultati soddisfacenti (dice: “non è venuto bene, non sono capace io”).
Si disegnano le candeline, nere dice lui, che sono da maschio. La logopedista scrive in grande: “6 anni, auguri !!!” Lui la guarda e le chiede di aggiungere: “Va anche alla scuola elementare di ….” .
Poi prova anche lui a scrivere il numero 6 come decorazione della torta.
Il gioco diventa una potente opportunità per favorire l’evoluzione dei livelli specifici del linguaggio (fonologico, lessicale, morfosintattico e narrativo), che il logopedista stimola utilizzando l’atto che il bambino spontaneamente propone nel gioco.
Non abbiamo alcun timore di essere smentiti se sosteniamo che per qualsiasi “errore” verbale, si possa trovare nell’espressione spontanea del bambino tutto il materiale che può servire per una buona terapia: abbiamo esperienza del fatto che i bambini portano loro tutto il materiale di cui c’è bisogno per la correzione.
Solo verso la fine della terapia, nella fase che Chassagny definisce fase dell’espressione, è opportuno che si introduca materiale di rinforzo, tipo schede per correzione fonetiche ecc…
Come mostrato nei casi clinici, in questi rapporti terapeutici bisogna mantenere una grande elasticità, vi è grande variabilità di situazioni; può essere che per un bambino alcuni rinforzi vadano forniti prima di quanto abbiamo appena detto, mentre in altri casi potrebbero non venire proposti affatto.
L’importante è che la tecnica non preceda il bambino: egli sa che viene in un ambulatorio di logopedia per le parole e per il linguaggio; ma se le parole sono le sue anche il lavoro tecnico ha l’opportunità di appoggiarsi su parole vive, parole importanti per il bambino, che raccontano la sua storia: gioco e linguaggio acquistano in questo modo una sostanza vitale e consentono la conoscenza dell’altro e l’avvio a un riordino della simbologia, riordino a cui deve accedere il bambino stesso.
Luca ha 4 anni e 5 mesi, giunto al Servizio per ritardo del linguaggio espressivo. Logopedista e bambino stanno facendo un disegno del pesce in padella che gli piace tanto. La logopedista descrive le parti del pesce e quando arriva alla pinna, Luca ride e dice /peʃekade/ e allarga le braccia.
La logopedista gli propone di ripetere bene il nome dividendolo in due pesce e cane; lui la guarda attento e ripete correttamente, poi aggiunge che è: /dande/; la logopedista dice: “Sì hai ragione però forse volevi dire grande” e la log. insiste su “grrr”.
Anche Luca prova e riesce a dire /gade/. Continuano con il disegno e, finito il pesce in padella, passano al pescecane giocattolo; Luca si diverte subito a fargli usare la bocca spalancata per fargli prendere alcuni piccoli oggetti; ha una passione per gli animali feroci che da sempre definisce /am/, indicando i denti sporgenti.
Costruiscono una casa per il pescecane ma anche il mare e una barca con il pescatore; ritornano le occasioni per ripetere le parole iniziali; la sua produzione non è sempre corretta ma ci prova serenamente guardando negli occhi la logopedista.
Per tanto tempo ha giocato da solo chiedendo l’aiuto alla logopedista, ma non la partecipazione; con il pescatore ritornano sulla parola su cui si sono fermati qualche settimana fa: “omino” per lui diventa /mino/ ma oggi riesce a correggersi senza l’aiuto della logopedista.
Conclusioni
Nonostante la mole emotiva del materiale che i bambini portano, il logopedista durante la seduta manda segnali che rendono specifico quel contesto e quell’incontro, segnali fatti di microinterventi sulle parole, e questi micro-interventi rendono la seduta specifica di logopedia.
Nel contesto della seduta, il bambino ha il campo libero, e lo può riempire con i suoi contenuti e con i mezzi che preferisce tra quelli che il terapista può mettere a sua disposizione: gioco, disegno, modellamento con il pongo, racconti ecc.
Il logopedista ha un mandato verso di lui, verso la famiglia e verso l’istituzione per la quale lavora: è lì con lui per accogliere i suoi contenuti, ascoltarlo, guardarlo, ma anche per trovare con lui le corrette produzioni linguistiche o per lo meno per mostrargliele, esprimendole per lui in forma socialmente corretta.
Logopediste del Gruppo ricerca PRL Triveneto
Agnese Da Rold, logopedista, Servizio per l’età Evolutiva, Unità Operativa Infanzia Adolescenza e Famiglia, Azienda U.L.S.S. N° 8 ASOLO (TV); Formatrice P.R.L. e T.A. dell’Istituto Chassagny Milano (www.istitutochassagny.com)
Raffaela Foletti, logopedista, Azienda Provinciale per i Servizi sanitari, Unità Operativa di
Neuropsichiatria Infantile n. 2 ARCO (TN) Elisa Marabese, logopedista, Servizio di Neuropsichiatria Infantile, ASL3 BASSANO del GRAPPA (VI)
Magda Gregorat, logopedista, AAS2 Bassa Friulana Isontina Servizio U.O.E.E.P.H. (età evolutiva prevenzione handicap) sede di CORMONS (GO)
Donatella Mazzoldi, logopedista, Azienda Provinciale per i Servizi sanitari, Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile n. 2 ARCO (TN)
Maria Luisa Riolfo, logopedista, Area Materno Infantile e dell’Età Evolutiva, A.A.S. n.3 “Alto Friuli-Collinare-Medio Friuli” TOLMEZZO (UD)
Enrica De Zordi, logopedista, Servizio Età Evolutiva, U.L.S.S. N 1 BELLUNO
Fiammetta Chiaia, logopedista, Fondazione Robert Hollman, PADOVA
Bibliografia
Anzieu A.; Anzieu-Premmereur C.; Daymas S. (trad.it. 2001)“Il gioco nella psicoterapia del bambino”. Roma, Borla ed.
Baker D.; Draghi L. (1979) “Capire nel gioco il bambino sotto i cinque anni”. Cappelli ed.
Bruner J.S. 1983 (trad.it 1987) “Il linguaggio del bambino. Come il bambino impara ad usare il linguaggio”. Roma, Armando Armando ed.
Millar S. 1968 (trad.it 1974) “La psicologia del gioco infantile”. Milano, Boringhieri ed.
Pellegrini A.D. (1984), The effect of dramatic play on children’s generation of cohesive text. Discourse Processes, 7, 57-67
Snow C.E. (1995): Issue in the study of input: finetuning, universalità, individual and
developmental differences and necessary causes. In P.Fletcher, B. Mc Whinney (a cura di): The handboock of child language. Oxford: Blackwell
Winnicott D. W. 1971 (trad.it 1974) “Gioco e realtà”. Roma , Armando ed.