Presentazione al Congresso annuale Istituto Chassagny 2014
Di: Michel Luҫon
È la quarta volta che ho il piacere di parlare del mestiere con voi. Mi ricordo che la prima ebbe luogo 20 anni fa, nel settembre 1994.
In 20 anni le condizioni dell’esercizio dei nostri mestieri sono molto cambiate.
Sono cambiate socialmente e culturalmente. L’accesso ai modi di usare il linguaggio scritto costituisce sempre un progetto essenziale dell’educazione. E tuttavia la realizzazione di quest’obbiettivo si rivela comunque complesso per certe persone.
Scegliendo questo titolo – la memoria si coniuga al presente – vorrei esplorare un aspetto molto particolare del fenomeno della memoria, nel modo in cui può rivelarsi a noi leggendo e scrivendo. Quest’aspetto ci è familiare, e si presenta come un movimento – è il senso di “si coniuga”. Il carattere dinamico della memoria, potremmo dire “cinetico”, è abbastanza ben reso da espressioni come “…quello che viene…” o “…quello che passa per la testa…”, o da un termine più astratto, l’evocazione. L’atto concreto che esprime questa parola è “il punto di vista” a partire dal quale parleremo della memoria. Ciò potrebbe rendere più evidente la positività radicale dell’evocazione. Positività dell’evocazione? L’espressione è astratta ma mira ad un punto preciso della pratica dei nostri mestieri: si tratta di sapere come guardiamo e sentiamo quello che si scrive e si dice davanti a noi, per noi.
Infatti, se la spontaneità nella parola sembra scontata, come si presenta nella scrittura? Come si presenta, se si considera che tra un voler dire e un poter dire ha luogo tutta la dimensione concreta dell’espressione, ovvero i movimenti degli organi fonatori per la parola, e i movimenti della mano per la scrittura, senza dimenticare che simultaneamente si trovano associate la percezione uditiva e la percezione visiva…
Per ogni individuo il potere di esprimersi si costruisce in una storia. Nel corso dell’infanzia, in qualche anno, l’essenziale della struttura del linguaggio si organizza; il seguito sarà uno sviluppo di queste capacità acquisite. L’espressione è un processo in divenire, costantemente in divenire. Le forme dell’espressione si organizzano nella singolarità di una storia. Il testo di Italo Calvino, Dall’opaco, affronta questo tema con una potenza notevole. Il mondo, come ognuno lo percepisce, è una composizione singolare di sensazioni e di linguaggio presa nelle relazioni con le persone familiari innanzitutto.
Nell’esercizio dei nostri mestieri, siamo costantemente in contatto con questa singolarità degli individui. La sfida è allora di non intralciare lo sviluppo di questa singolarità, e se è possibile di facilitarla. Che facciamo? Che idea abbiamo di quello che facciamo nel momento in cui invitiamo qualcuno a leggere o a scrivere, quando, precisamente, quest’atto sembra molto, molto lontano da qualunque tipo di spontaneità possibile?
Nessuna tecnica potrebbe dispensarci da questa domanda. Ed è anche necessario interrogare le tecniche sulla loro capacità di rendere possibile un’espressione, lì dove non lo era.
È secondo questo spirito che vi propongo alcune analisi delle concezioni di lavoro iniziate da Claude Chassagny, cioè la Pedagogia Relazionale del Linguaggio e la tecnica delle associazioni.
La paleontologia.
Per farlo farò riferimento prima di tutto alla paleontologia. Perché? Perché permette di comprendere come la trasmissione dei gesti occupa una funzione vitale per la specie umana.
In secondo luogo perché il gesto grafico fa parte di un insieme di gesti che hanno prodotto degli oggetti particolari, parlo degli oggetti estetici.
Grazie al lavoro dei paleontologi e dei preistorici, abbiamo accesso ad una memoria dell’umanità che non cessa di estendersi nel passato. La lettura dei loro scritti da l’impressione che facciano entrare la Preistoria nella Storia. Questa inscrizione della preistoria nella storia si rivela sui due temi già citati: il gesto e l’oggetto estetico.
…Forse bisognerà un giorno sbarazzarsi della formula che vuole che la Storia inizi con la scrittura delle lingue…
Il gesto, la memoria dei gesti.
I lavori di André Leroi-Gourhan costituiscono il mio riferimento principale.
André Leroi-Gourhan, antropologo, etnologo, archeologo, paleontologo, preistorico, è nato nel 1911 e deceduto nel 1986. Ha esercitato e continua ad esercitare un’influenza considerevole in tutti questi campi. Mi scuso di citare un autore francese, ma non è sconosciuto dagli autori italiani di questa specialità.
Quello che cercherò di dirvi a proposito dei gesti è in buona parte estratto dal suo elaborato intitolato “Le geste et la parole: Technique et Language. La Mémoire et les Rythmes”.
Josiane Lots si è incaricata di trovare l’edizione italiana, ovvero “Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi – Einaudi – 1977”.
È sempre difficile estrarre alcuni elementi da un lavoro come questo senza snaturarlo ma con la speranza di trasmettere almeno parte della luce che proietta sull’esistenza umana.
Nell’evoluzione delle specie zoologiche, l’organismo umano presenta delle similitudini e delle differenze con gli organismi viventi che gli sono più vicini. Si sa che l’emergenza del ramo degli ominidi, distinto dalle specie zoologiche vicine, è sottomessa a delle datazioni che presentano delle distanze considerevoli: da Lucy (3,2 Ma) a Tournai (7 Ma) la differenza si esprime in milioni di anni. La specie homo si distingue dalle altre specie zoologiche per la posizione verticale, una locomozione sul suolo strettamente bipede, delle capacità ridotte di arrampicarsi, la disponibilità degli arti anteriori durante la locomozione, la liberazione della faccia, un volume cerebrale importante, un apparato digestivo ridotto, una dentatura più piccola. Ma condivide con le altre specie la necessità di realizzare certi atti indispensabili per la sopravvivenza. Ogni organismo deve prelevare nell’ambiente in cui si trova, gli alimenti che può assimilare.
La ricerca alimentare e i modi di riproduzione si realizzano secondo “delle catene operative”, una successione di azioni e di comportamenti che sono propri ad ogni specie: reperimento degli alimenti, avvicinamento, cattura, prensione, taglio, ingestione…Lo svolgimento di queste catene operative presuppone, per l’individuo-formica per esempio, così come per l’individuo-uomo una memoria, e specialmente una memoria motrice che regoli il funzionamento dell’apparato osteo- muscolare.
Leroi-Gourhan descrive due modi di programmazione di queste catene operative: <<l’uno corrisponde nell’insetto al massimo di predeterminazione genetica, l’altro, (corrisponde) nell’uomo, ad un’apparente indeterminazione genetica…>>
Questa differenza si comprende se facciamo riferimento a un tempo esteso di evoluzione delle specie animali. Cito: <<Nel corso dell’Evoluzione, i sistemi nervosi sembrano progredire in due direzioni opposte, l’una (quella dell’insetto o dell’uccello) dove l’apparato nervoso canalizza in modo sempre più ristretto i comportamenti, l’altra (quella dei mammiferi e dell’uomo) dove i percorsi nervosi si arricchiscono prodigiosamente di elementi connettivi, propri a stabilire dei rapporti tra situazioni già attraversate dall’esperienza e situazioni nuove. (Attualmente parleremmo probabilmente di “connessioni neuronali” invece di “elementi connettivi” ). La memoria dell’individuo, creata nel primo periodo della vita, prende allora il sopravvento sulla memoria specifica (della specie) che è essenzialmente il risultato di disposizioni ereditarie dell’apparato nervoso. >>
Ritroviamo in questo estratto delle nozioni conosciute: quella dei comportamenti animali disciplinati dall’istinto, che mostrano dagli invertebrati fino ai vertebrati superiori una scala di comportamenti che va dalla ripetizione invariata dei comportamenti alimentari, per esempio, ad una possibilità di scelta tra delle risposte adatte a delle situazioni variabili. << Quello che caratterizza il comportamento individuale del mammifero, perlomeno il comportamento di sopravvivenza, è … un certo margine di padronanza, variabile secondo le specie, ma molto ampia già dai carnivori e dai primati. >>
Parlando di questo tema della scelta possibile tra vari programmi di comportamento (scelta: confronto, secondo i termini di Leroi-Gourhan, tra varie soluzioni operative possibili) Leroi-Gourhan mette in evidenza il passaggio di una memoria genetica ad una memoria individuale e alla combinazione delle due. A partire da un certo livello di evoluzione del sistema nervoso nelle specie animali, le esperienze vissute dall’individuo possono inscriversi come memoria e diversificare le possibilità di adattamento.
Le capacità cerebrali dell’uomo sono le più importanti nella serie animale, la parte individuale nella costituzione della memoria modifica profondamente il rapporto tra memoria genetica e memoria costruita.
Ne consegue che l’uomo può essere compreso solo se inserito nell’insieme della serie zoologica, in quanto: quanto: <<Le manifestazioni operative dell’uomo si situano su un fondo istintivo molto importante…(regolazioni di pulsioni organiche profonde, comuni a tutti gli individui, e di dispositivi propri all’inscrizione dei programmi operativi, i quali dettagli possono variare sensibilmente da un individuo all’altro.>>
E ne segue che la parte di memoria individuale costruita presenta nell’uomo un carattere specifico e molto complesso, che lo distingue assolutamente dal mondo animale. In effetti, l’essere umano nasce prematuro. Fin dal concepimento, fin dalla sua vita intra-uterina, è avvolto da una memoria che gli è esteriore e gli preesiste.
Vi ritroviamo un tema fortemente messo in evidenza da Freud e Lacan…
All’inizio della sua esistenza l’organismo umano dispone di un minimo istintivo (la respirazione, per esempio) e che per la maggior parte degli atti necessari dalla sua sopravvivenza, le sue “catene operatorie” si costituiscono secondo i programmi specifici del suo ambiente, quello degli individui più vicini a lui ovviamente, ma anche del gruppo sociale, che Leroi-Gourhan denomina gruppo etnico. (precisione importante: questo termine designa la specificità delle abitudini culturali dei gruppi sociali, abitudini alimentari, dell’abbigliamento, riti funebri, danze, tecniche agricole ecc…)
Infatti è una caratteristica specifica dell’uomo il costruire la propria esperienza e la memoria che ne conserva tramite il linguaggio. Se con “catene operative” si intende per esempio il modo in cui il neonato si adatta al ritmo giorno/notte, oppure al ritmo bisogno di mangiare/ modo di nutrirsi/ esperienza di sazietà, oppure all’uso del suo apparato osteo-muscolare, si capirà che l’esperienza è individuale ma dipende anche da chi ha preceduto l’individuo nella sua esperienza e che ciò viene trasmesso non geneticamente ma tramite il linguaggio e la condivisione dei gesti, che sono dipendenti dal linguaggio. In breve, l’autonomia è l’appropriazione individuale di “gesti” strutturati collettivamente ed è la possibilità di trasformarli o persino di opporsi.
Infatti, ci vogliono più mesi perché l’organismo umano acquisisca un minimo di autonomia motoria e percettiva per compiere gli atti necessari alla sua sopravvivenza, per valutare con giudizio le situazioni di pericolo, perché distingua ciò che si mangia da ciò che non si mangia …
Cito: <<Nell’uomo il problema della memoria operativa è dominato dal linguaggio. Attraverso l’educazione, gli individui ricevono tutta la loro condotta operativa. Le possibilità di confronto (scelta tra delle possibilità rappresentate da simboli) e di liberazione dell’individuo (fare diversamente dall’ambiente, opporcisi, inventare …) si appoggiano su una memoria virtuale il cui contenuto appartiene alla società. >>
Perciò dicevo che, dalla nascita, l’essere umano è avvolto da una memoria esterna.
Questo autore mostra che la realtà dell’organismo umano comporta tre livelli inseparabili:
- Un livello specifico (della specie): le competenze individuali sono sottomesse alla determinazione genetica (corpo umano polivalente, medio in tutto, eccellente in niente; sul piano percettivo, vista ed udito dominanti; regolazioni neuro-vegetative …)
-Un livello socio-etnico: l’intelligenza umana costruisce fuori dagli individui un organismo collettivo con proprietà evolutive vertiginosamente rapide; il grado di vincolo socio-etnico è per l’individuo imperioso quanto il vincolo zoologico che fa nascere l’homo sapiens. - Un livello individuale: Il suo bagaglio cerebrale gli da la possibilità di confrontare delle situazioni tradotte in simboli; l’individuo è in grado di affrancarsi simbolicamente dei legami sia genetici che socio-etnici.
Infine, considerando l’organismo umano al suo livello socio-etnico, Leroi-Gourhan menziona le sue proprietà evolutive vertiginosamente rapide. Qui si fa riferimento a una specificità umana: Lo sviluppo dell’utensile, lo sviluppo tecnico legato al simbolo e prodotto di una collettività concepita come un organismo.
Per riassumere ecco due annotazioni:
<<Tutta l’evoluzione umana concorre a mettere al di fuori dall’uomo ciò che, nel resto del mondo animale, corrisponde all’adattamento specifico (della specie)>>
E: <<La mano umana è umana grazie a ciò che se ne stacca e non grazie a ciò che è>> Sottolineiamo questo aspetto importante, essenziale quando si vuole pensare alla scrittura. La memoria individuale e la memoria sociale sono allo stesso tempo distinte e indissociabili. L’immagine di un’esteriorità della memoria sociale che forma una parte della memoria individuale ci mette sulla via per la comprensione della scrittura. Ricorderemo anche che il simbolo grafico non fa altro che utilizzare delle capacità motrici della mano che si sono <> in occasione di tutte le manipolazioni infantili.
L’oggetto estetico
Ci riferiamo quindi a una lunga storia dei gesti, delle tracce e delle immagini. Dovrebbe essere un modo per meglio avvicinare la realtà della scrittura. Per questo, bisogna prendere in considerazione gli oggetti estetici presenti già dal paleolitico superiore. Perché? Perché, in queste creazioni estetiche, la memoria socio-etnica e la memoria individuale si trovano assolutamente associate.
A partire dal paleolitico superiore, gli umani producono degli oggetti che appartengono per noi alla categoria degli utensili, delle armi. Quelli che restano sono in pietra, in avorio, in legno di renna, in conchiglie… Li associamo evidentemente agli atti necessari alla sopravvivenza, la caccia e la raccolta.
Ma gli accampamenti dei cacciatori-coglitori lasciano anche altri oggetti. Alcuni sono associati alla sepoltura dei morti (ornamenti, collane, ecc…) e altri sono dei blocchi di pietra o dei ciottoli incisi o dipinti, e anche un po’ più tardi delle statuette, dei disegni rappresentanti in particolare il sesso femminile. Delle grotte sono ornate di dipinti, incredibilmente ben conservati, e di incisioni: animali, segni, simboli sessuali…
Chiamiamo quindi oggetti estetici, delle forme che esprimono un pensiero sul mondo e sull’uomo stesso per come si situa nel mondo. Presuppone il linguaggio. Presuppone una capacità propria agli uomini, quella di riflettere la loro esistenza e il loro ambiente con l’aiuto di simboli. Si tratta si un’attività mentale di un ordine particolare che mobilita l’apparato osteo-muscolare, e in particolare la mano, per una cosa completamente diversa dalla soddisfazione dei bisogni corporali vitali.
Nel campo estetico, un gioco di differenziazione e di alleanza tra individuo e società si manifesta e si ripete. Due ostacoli possono impedirci di essere sensibili a questo gioco, a questa combinazione di memorie, a intreccio di memorie.
La sopravvalutazione dell’individuo è il primo ostacolo. Sulla scena artistica abbiamo la tendenza a credere che certi individui si distinguano decisamente dal resto dei loro contemporanei. Alcune persone costituirebbero delle eccezioni manifestando un genio personale che stupisce, soggioga, scandalizza una società poco disposta ad assorbire troppe novità. In questo caso, siamo pronti ad ammettere la possibilità di una creazione che non deve niente a nessuno, che non deve niente al passato, che esiste al di là di qualsiasi memoria. In questo caso, più che in qualsiasi altro, ammettiamo che tale individuo si distingue radicalmente da ciò che lo circonda, e che esalta nella sua creazione il potere dell’individuo di estraniarsi dall’ambiente che l’ha fatto nascere. Questa è un’opinione particolarmente diffusa a partire dal XIX secolo.
Questi modi di pensare all’arte, questi modi di pensare all’ambito degli oggetti estetici potrebbero influenzare il nostro sguardo sui dipinti rupestri e persuaderci, per esempio, che sono anch’essi improvvisazioni d’individui ispirati.
La distanza nel tempo è il secondo ostacolo. Potremmo dirci che queste epoche cosi lontane riguardano poco l’uomo contemporaneo, che presentano un interesse solo per alcuni uomini appassionati di conoscenza. Potremmo anche dirci che questa memoria costruita, più ricca di discontinuità che di certezze, non è in grado di toccare la nostra sensibilità, e che perciò è di una natura completamente diversa della memoria soggettiva che consideriamo spontaneamente come la “vera” memoria, quella che sempre è accompagnata da emozioni appena vengono alla coscienza delle tracce del nostro passato.
Ora basta fare un’esperienza sensibile, andare in questi luoghi oscuri ed essere profondamente sconvolti dalla bellezza creata da degli uomini cosi lontani da noi nel tempo. Questa bellezza la percepiamo come un dono di essere umani dei quali ignoriamo praticamente tutto, dei quali ignoriamo il motivo che li ha spinti a dipingere, ad incidere queste figure in condizioni di illuminazione che immaginiamo appena.
Eppure l’emozione lascia una percezione interna ben lontana dall’essere banale: dice che l’esistenza di uomini cosi lontani ne tempo viene percepita come una presenza. La memoria si
coniuga al presente… Se togliamo questi due ostacoli constatiamo che gli studi condotti dai paleontologi, dai preistorici su questo argomento orientano il nostro sguardo verso una comprensione più complessa dell’insieme di dipinti realizzati nel paleolitico superiore (da 35000 BP circa a 10000 BP circa).
I segni grafici, la raffigurazione
Ero stato molto interessato da un’osservazione di André Leroi-Gourhan riguardante le prime testimonianze grafiche conosciute negli anni 60; secondo lui le forme grafiche non figurative (cerchi, striature, tratti) si rivelavano più vecchie dei primi disegni figurativi. Dei ciottoli datati tra 30000 anni BP e 17000 anni BP (Mas d’Azil, France) permettevano di pensarlo. Tuttavia nel 1991, in Sudafrica, vicino a Città del Capo, il sito di Blombos lasciava numerose vestigia, tra le quali un blocco di ocra con striature regolari risalenti al 73000 anni BP…
Altro esempio di riorganizzazione della cronologia: la grotta di Lascaux (scoperta nel 1940, France, valle della Vézère) ornata di magnifiche pitture rupestri, testimoniava di una maestria pittorica vecchia di 17000 anni. Ora, nel 1994, si scopre la grotta Chauvet ( France, valle dell’Ardèche) dove certi dipinti datano di 38000 anni!… Questa grotta è appena stata iscritta il 22 giugno 2014 al Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.
Questi sconvolgimenti nella cronologia incitano alla prudenza riguardo alle concezioni troppo affrettate circa la scrittura. Invitano a pensare e ripensare ai rapporti tra raffigurazione e segni astratti, tra simbolo grafico non linguistico e simbolo grafico linguistico.
Alla lettura di questi lavori, ci si accorge che gli oggetti estetici antichi danno luogo a delle interpretazioni molteplici.
Nei periodi più contemporanei (seconda metà del ventesimo secolo), il lavoro d’interpretazione è orientato soprattutto verso una descrizione esatta della composizione degli insiemi figurati, dei materiali utilizzati ( pigmenti, leghe, spazzole, pennelli, sagome, punte dure per incidere, carbone), dell’utilizzo dei rilievi sulla roccia, delle linee continue, tratteggiate, linee riprese, sovrapposte, i procedimenti di sfumatura, di cancellazione, la cronologia della sovrapposizione di più figure… insomma il percorso dell’interpretazione passa attraverso una conoscenza sempre più precisa e complessa dei gesti.
Questi studi mostrano anche delle costanti nei tracciati degli animali, delle similitudini nella composizione degli insiemi, delle somiglianze nella ripartizione dei temi all’interno delle grotte.
A proposito della curva cervico-dorsale (cima della testa e schiena) Leroi-Gourhan parla di una <<forma canonica figurativa … lavorata e ripetuta attraverso i secoli di copie successive>>.
Un altro autore fa l’ipotesi di “vincoli formali”, di regole sociali di composizione, d’imperativi religiosi.
Tal altro specialista mostra che nella grotta di Lascaux la sovrapposizione dei tratti rivela un ordine di composizione delle pareti che è sempre lo stesso: i cavalli, poi i bisonti e poi i cervi.
Un altro esempio affascinante: sparpagliate in diverse regioni europee, centinaia di statuette rappresentanti il corpo femminile, mostrano delle similitudini di forma davvero sorprendenti. Come si sono trasmesse questi modelli figurativi nello spazio e nel tempo? Possiamo arrivare a pensare che qualunque produzione grafica tragga da una memoria collettiva degli elementi formali che non sono mai assenti nemmeno nelle creazioni più particolari?
Un filo d’Arianna per una concezione terapeutica
Testimoni dei disegni infantili, degli scarabocchi, dei tentativi di scrittura imperfetti, orienteremo il nostro sguardo e il nostro ascolto verso questa dimensione oscura della memoria grafica? È possibile concepire che il minimo tratto grafico presuppone da parte dello scrittore la realizzazione di un bagaglio memorizzato che mescola le forme derivanti dall’influenza della collettività e le forme derivanti dall’esperienza vissuta individuale? Possiamo concepirlo, anche se questo materiale acquisito dovesse apparire solo sotto forma di linee spezzate, di curve intrecciate, in breve di quello che, in uno scarabocchio, sembra molto vicino ad una scarica motrice “incontrollata”? Possiamo osservare che se c’è la realizzazione di un materiale acquisito, non c’è mai una ripetizione identica? Possiamo osservare che ogni realizzazione “assorbe” la parte di novità propria alla situazione nuova?
Penso alle migliaia di piccoli cuori che ho visto tracciare, alle migliaia di fiori, di nuvole, di soli, di parole che il bambino voleva simili e che ad ogni tratto si mostrano diverse, leggermente diverse, impercettibilmente diverse.
Sappiamo che i bambini sono molto abili a trasformare in gioco questa ricerca dell’identico che può diventare una sfida per ottenere la partecipazione attiva manuale dell’adulto che è con loro.
Portare la propria attenzione sulla realizzazione motrice del tratto ci mette in presenza di fenomeni fugaci poco propizi alla descrizione. Eppure la neurologia ci s’interessa sotto l’aspetto dei circuiti dei comandi muscolari, per esempio. Possiamo interessarcisi anche sotto un altro punto di vista? Possiamo chiederci in cosa la vita mentale, psichica di chi traccia è interessata dall’atto che scatena? Che interesse ha il fatto tracciare dei segni ? Come mai i bambini se ne incaricano?
Incaricarsene rimanda all’investimento di cui parla Freud. I bambini sviluppano molto presto un’esplorazione spontanea delle forme grafiche. La spontaneità di questa esperienza vissuta deve attirare la nostra attenzione. Dato che può essere ostacolata, persino rotta.
Che cos’è rotto di questa impulsione nel momento in cui la scrittura delle parole diventa troppo difficile, troppo laboriosamente riflettuta, lontana, molto lontana dall’esperienza motrice pronta a sorgere?
Forse si tratta di imparare a lavorare con l’invisibile della scrittura? Di uscire dall’illusione che il tratto lasciato sul foglio dica tutto del fenomeno mentale che lo produce. Alcuni specialisti della scrittura in quanto movimento, insistono sul fatto che il tratto rappresenti solo una parte del movimento che lo produce. Anche le tecniche sofisticate di registrazione dei movimenti della scrittura in laboratorio, colgono solo una parte del processo. Questo per dire che parlare di lavorare con l’invisibile della scrittura non ha nulla di un approccio cartomantico, chiromantico, di indovinello ! Forse facciamo solo questo e senza saperlo! Tanto vale cercare di saperne un po’ qualcosa!…
L’invisibile nella scrittura è precisamente la funzione della memoria. Ci ricordiamo dell’espressione di Leroi-Gourhan secondo il quale il cervello è un apparecchio per confronti. L’attivazione di una catena operativa è il risultato di un processo di paragone tra varie possibilità simboleggiate secondo le circostanze presenti. Il tracciato presuppone una selezione, ovvero lo scarto delle altre possibilità la quale esistenza in quel momento è puramente mentale! Alcuni autori parlano di “balistica del tratto”. Qual è l’obbiettivo ? Che percorso, con quanta pressione, che velocità, che distanza? Lo scopo è stato raggiunto, mancato? Tutto questo si gioca molto velocemente e in una varietà infinita.
Questa struttura di un processo per una parta visibile, nel caso della scrittura, e per una parte invisibile non ci è sconosciuta. È quella che è messa in evidenza nella teoria della lingua e della parola, di Ferdinand de Saussure. È la nozione di paradigma.
Questo termine fa parte della teoria del segno linguistico. Si oppone al sintagma. Paradigma e sintagma sono i due assi di funzionamento del segno. L’asso orizzontale, quello dei sintagmi, è l’asso degli incatenamenti, dei segni legati gli uni agli altri nella catena parlata. L’asso verticale, quello dei paradigmi, è l’asso delle sostituzioni, ovvero dei segni che possono essere usati nella catena parlata. Un esempio semplice di paradigma, è la coniugazione del verbo.
In una frase come: <<il cavallo salta l’ostacolo>>, l’elemento <<salta>> potrebbe essere sostituito da <<ha saltato, salterà, aveva saltato, ecc… >>. Queste opposizioni hanno un valore di senso, dato che esprimono la categoria del senso.
Potremmo operare anche delle sostituzioni sul piano lessicale sostituendo <<salta>> con <<rifiuta, aggira, urta, rovescia, ecc… >>.
In questo modo si comprende una caratteristica del segno linguistico teorizzato da F. de Saussure: un segno esiste solo in quanto diverso dagli altri segni. Potremmo concepire facilmente che “le confusioni di suoni” per esempio siano dei momenti nei quali la selezione del segno da tracciare è disturbata dalla presenza mentale degli elementi opposti. In questo senso l’espressione è sempre ellittica, cosa che non è una novità!
Un’altra maniera di immaginare la nozione di paradigma, è di seguire la dinamica all’opera nella dimenticanza di una parola, nella dimenticanza di un nome.
Bisogna far riferimento all’esperienza personale.
In diverse sequenze di un film che guardo, riconosco un attore che so che ha influenzato la formazione di numerosi attori famosi. Impossibile ricordarmi il suo nome. Mi arrabbio!…
Qualche giorno dopo, sfoglio delle cartelle per trovare gli esempi clinici da presentarvi. Gli scritti di un adolescente che parlano di Berthold Brecht attirano la mia attenzione. E di colpo, il nome! Il nome “dimenticato” riaffiora: Romain Bouteille.
È stato il contesto del teatro? È stata l’attivazione potenziale di tutti i “paradigmi” per me legati al teatro che ha provocato il ricordo ? Sì, certo! Ma forse ha giocato un ruolo anche la presenza visuale delle iniziali B-B vicine a R-B?… Lavorare con l’invisibile della scrittura, cosa vorrebbe dire?
Bisognerebbe per questo essere sensibili, attenti allo svolgimento del tratto perchè il gesto della scrittura si mette in moto solo per realizzare una forma memorizzata. E questa forma memorizzata è accompagnata da altre forme che hanno solo una presenza mentale, invisibile ma necessaria, altre forme i cui non si è consapevole ma che influenzano la scelta. Parlo di quello che chiamiamo l’evocazione nell’atto di scrivere. C’è una positività dell’evocazione: tutte le forme sono accettabili e hanno una loro ragion d’essere. Ciò che produce il movimento, la traccia, deve essere ricevuto come un dato significativo.
E dobbiamo essere rigorosi su questo punto, se no le preoccupazioni riguardo alla norma ortografica cancellano il vivo del gesto, rendono incomprensibile ciò che è una forma scritta e rendono impossibile l’integrazione progressiva della lingua scritta.
L’osservazione del gesto grafico non potrebbe essere un modo di accompagnare lo sviluppo del poter leggere e scrivere diversamente invece che notando i mancamenti, le deficienze, le
deformazioni?
Le concezioni del lavoro iniziate da Claude Chassagny potrebbero essere interpretate come delle concezioni che vanno in quel senso. Alla luce di ciò che precede si può esaminare il processo proprio alla Pedagogia Relazionale del Linguaggio, poi la nozione di <> e il processo dell’autocorrezione nella scrittura nelle serie di associazioni.
Processo della Pedagogia Relazionale del Linguaggio
Si crede, a torto, che si capisce la Pedagogia Relazionale del Linguaggio in opposizione ad altri processi pedagogici apparentemente più direttivi. È molto insufficiente. E questo deriva da una concezione vagamente morale della nozione di libertà. La sfida pedagogica non può che riassumersi nello scontro di due libertà incompatibili: quella del bambino o quella dell’adulto. Purtroppo i dibattiti con gli avversari di questo modo di lavoro si sono spesso limitati a dei battibecchi sulla questione.
Nel nostro mestiere di educatori o di terapeuti, è più interessante chiedersi con quale realtà irriducibile abbiamo a che fare. Perciò è interessante illuminare attraverso un lavoro teorico che un bambino, per quanto sia giovane, è impegnato in un processo di appropriazione di <> (modi di comportamento e di azione culturalmente trasmessi) e che è sempre a partire dalla memoria individuale di questa esperienza vissuta che affronta le situazioni nuove, utilizzando percezione e memoria in meccanismi complessi di paragone e scelta.
Se il lavoro che si riferisce alla PRL ha un senso, è prima di tutto quello. L’evidenza di un ruolo della spontaneità deve essere capito come la via attraverso la quale l’individuo trova nell’espressione un accesso alla sua propria memoria e il modo di assorbire ciò che le situazioni gli presentano di nuovo.
Bisogna ben capire che la volontà sovrana dell’individuo non basta per far emergere la spontaneità.
Estraendo le forme della propria espressione dalla memoria collettiva, egli deve anche necessariamente verificare che queste forme siano valide per l’altro umano che ne è il testimone o il destinatario. Il vero limite della spontaneità è ciò che non passa. Una parte della sfida terapeutica dipende dalla nostra capacità di sbarazzarci del problema della norma, per interessarci realmente alle forme che vediamo nascere e per viverle come ammissibili. L’accettazione non può essere astratta, vagamente ideale, fittizia. È per questo che una comprensione aperta del gesto grafico deve essere costantemente presente.
Nel corso della storia della PRL, è diventato evidente che l’incontro con un bambino, e anche con i più grandi presuppone l’accesso libero a tutti i metodi di espressione. Poiché il bambino è in un’esperienza polimorfa dell’espressione, è necessario che, in una sorta di coreografia, possa passare da movimenti di grande ampiezza a movimenti fini, da un uso libero del proprio corpo all’interesse per degli oggetti, per le materie, per le regole del gioco, per le parole.
Lo sguardo dell’adulto, la sua partecipazione a questa coreografia provoca inevitabilmente una focalizzazione sugli aspetti complessi dell’espressione. I bambini, se si scoprono “accettabili”, s’incamminano spontaneamente verso ciò che li fa crescere. Invece, vanno fuori strada, si inibiscono se i loro tentativi ricevono solo un’accoglienza critica, reticente.
La validazione non è la comprensione. È una risposta alla spontaneità che si riassume in questo: è ricevibile per l’adulto che ascolta e guarda? E le nostre risposte sono innanzitutto corporee, l’attenzione non finta, lo sguardo non intrusivo, ma sostenuto da una neutra e discreta curiosità. La validazione non avviene attraverso il commento e soprattutto non un commento positivo.
Se la sua espressione viene accolta l’individuo scopre nella sua espressione nuovi valori insieme alla soddisfazione provocata dalla realizzazione di un’acquisizione.
La scrittura in serie di associazioni. Lo stile “prediscorsivo”.
Claude Chassagny è partito da un fatto fortuito successo in una seduta per strutturare una modalità di scrittura capace di operare una funzione terapeutica.
Nel corso di una seduta, Chassagny detta la parola “charcutier” (macellaio) che il bambino scrive charqutier. In quel momento viene disturbato, deve uscire dalla stanza e ritorna, e si mette a dettare al bambino come se la relazione non fosse stata interrotta:
- cuve (tino, vasca)
- circuler (circolare)
- cure (cura)
- charcutier (macellaio)
Può constatare che il bambino ha riorganizzato la parola senza osservazioni, senza che l’errore sia stato segnalato. Parole a caso, tra altre che avrebbero potuto presentare questa stessa sillaba cu, creando una sorta di entourage, di ambiente favorevole, queste parole creavano le condizioni favorevoli per una nuova evocazione della parola charcutier.
Era quindi possibile proporre a un bambino, un adolescente o un adulto, una “colata di parole”, un flusso di parole liberamente associate fuori dal vincolo della frase. E questo modo di procedere conciliava due esigenze: la possibilità di una vasta varietà di temi e la normalizzazione dell’ortografia.
Il nome di questa modalità di scrittura si è evoluto nel tempo: tecnica delle serie, poi tecnica delle associazioni.
Su questa avete la “forma canonica” della serie. O una successione di parole, o delle corte espressioni scritte verticalmente. Ogni riga è un passo accompagnato o meno da un trattino e i passi sono collegati o per il senso o per la forma o per entrambi. Questo procedimento permette una grandissima flessibilità di cadenze. Il ritmo si adatta alle capacità di evocazione dello scrittore, sia che dia lui stesso le parole, sia che scriva le parole proposte dall’adulto. Il procedimento è di una semplicità “infantile” ma quelli che lo praticano sanno che richiede da parte dell’adulto un lavoro di elaborazione costante.
Si tratta infatti di andare a incontrare gli interessi del bambino, quello che vuole dire: andare incontro a parole che il bambino ha realmente incontrato in circostanze della sua vita. Queste parole possono
- Essere state scoperte con l’esperienza
- Essere state commentate
- Essere state semplicemente lette
- Essere arrivate con un significato particolare
- Essere appena accennate
- Ecc…
Si tratta realmente di una parola, di un pensiero che si sviluppa in uno stile diverso dall’organizzazione di un discorso in frasi. Chassagny gli ha dato il nome di “stile prediscorsivo” strutturato secondo una “grammatica probabilistica”. L’espressione “colata di parole” traduce bene il fatto che non si tratta di legare la coscienza dello scrittore a tale parola in particolare, ma di proporre un flusso ritmato. Le relazioni possibili tra le parole sono molteplici, infinite. Strada facendo, scrivendo, dei valori di senso legati alle forme ortografiche, si imporranno nella mente perché evocano in quel momento una parte di vissuto dello scrittore.
Vuol dire che due parole bastano:
- lo stadio
- la pista
due parole bastano per provocare delle frasi possibili, probabili. Non sono dette, ma fanno da struttura alla parola interiore, aprono verso dei campi di riferimento possibili.
- la piste
può benissimo condurre il pensiero verso il circo, il velodromo, lo sci, l’aeroporto, la caccia, ecc…, tutti paradigmi di cui alcuni trovano “en passant” una rapida estensione rapida nella coscienza: <<hanno perso la pista del cinghiale>> per esempio.
Nel momento del tracciato, lo “stile prediscorsivo” mobilita immediatamente una molteplicità di paradigmi. La logica non è assente dagli incatenamenti ma non è vincolante. Si può saltare di palo in frasca; si possono fare delle giustapposizioni di temi apparentemente senza legami, ma che seguono precisamente i percorsi di chi scrive. È la storia individuale della costruzione del linguaggio che viene mobilitata.
Ce ne rendiamo conto molto velocemente quando un ricordo viene in mente al bambino, quando segnala, ad esempio, che tale parola gli fa pensare a tale persona cara, a tale animale perso, a tale oggetto desiderato o che tale parola è segno di voglia, di disgusto, di rifiuto, ecc…
Quel modo di evocazione, “orale-scritta” sollecita molto potentemente le forme orali-scritte che sono iscritte in maniera particolare per ogni individuo. Ecco perché è così importante riconoscere che l’avvio del gesto, la liberazione di uno slancio, è necessariamente fondato su una memoria che si è organizzata e che si ricostruisce nel momento presente. Questo aspetto della scrittura – e potremmo sviluppare lo stesso per quanto riguarda la lettura – si impone alla nostra attenzione qualunque sia l’estensione delle acquisizioni degli individui, qualunque siano l’età da prendere in considerazione. È in questo campo che si creano e si sviluppano gli automatismi indispensabili.
L’autocorrezione
In questo contesto voglio insistere sulla nozione di autocorrezione, che è uno degli elementi di questa tecnica e che bisogna assolutamente differenziare dalla nozione pedagogica di correzione. La correzione è la modifica, la rettificazione del tratto. Si esegue “dopo”, una volta il gesto compiuto.
L’autocorrezione, quando ha luogo, è un aggiustamento della forma della scrittura in corso. Opera all’interno della coppia movimento- percezione visiva.
Tutti hanno quest’esperienza; è una frazione di tempo molto ristretta che è accompagnata dall’impressione di ritrovare ciò che si aspettava. Può vertere su di uno o più elementi di una parola.
Come processo terapeutico la pratica ne è delicata perché bisogna stare attenti a non fissare la coscienza dello scrittore sull’errore commesso ma, al contrario, spingerlo verso altre parole che serviranno da ambiente favorevole e permettere una nuova evocazione riuscita nella forma e nel senso.
Bisogna essere in grado di non insistere pesantemente, ed essere coscienti che saranno necessarie altre occasioni perché l’integrazione di certe forme sia consolidata. (Osservazione sulla “d” di accord e la “c” di concentration)
Facciamo quindi, l’ipotesi che ogni individuo si trovi in un certo punto della costituzione del suo patrimonio linguistico. È a partire da questo bagaglio memorizzato, che si fanno le nuove integrazioni. Ricordiamo che questo bagaglio ha una struttura, che una parola non esiste sola, che è sempre l’effetto di differenze racchiuse in molteplici paradigmi. L’autocorrezione è una messa in atto di questi paradigmi ed anche il loro aumento, il loro arricchimento. Potremmo prendere come esempio l’estensione delle famiglie delle parole. Si può conoscere pressione ma non oppressione, compressione, pressurizzato… In francese, si può conoscere doigt (dito), ma non digital.
Nel corso di questo processo terapeutico, constatiamo che le parole scritte sono accompagnate in maniera più o meno esplicita da manifestazioni grafiche cariche di emozioni: cancellazioni, ingrandimenti o miniaturizzazione delle lettere, disordine della linea di base, utilizzo ludico dello spazio del foglio, schizzi, scarabocchi, disegni, variazioni di colori. È importante seguire lo sviluppo di questi tratti, poiché sono alla base dell’esperienza delle forme. E qualche volte vengono accompagnati da commenti che spiegano il legame stretto dello scrittore con quello che sta scrivendo. Sono una parte dell’interpretazione simultanea che lo scrittore fa della propria scrittura e dicono qualcosa dei sentimenti che accompagnano questo gesto.
<< Qualche volta mi succede, faccio degli errori e mi fa male agli occhi >>
Il fuoco prende la forza del foglio
Frase enigmatica ma ricca d’immagini che spiegano il legame tra “errori” e “corpo proprio”, e il foglio, supporto della scrittura dotato di una forza…
Nessun dubbio che queste fantasie grafiche hanno a che vedere con investimenti molto antichi.
Dall’opaco di Italo Calvino
Per finire, se avete l’occasione di leggere La strada di San Giovanni di Italo Calvino, la vostra attenzione verrà forse attirata dal testo intitolato Dall’opaco.
<< e così anche adesso se mi chiedono che forma ha il mondo, se chiedono al me stesso che abita all’interno di me e conserva la prima impronta delle cose, devo rispondere che il mondo è disposto su tanti balconi… >>
Diversi temi di cui abbiamo parlato oggi vi si trovano fortemente legati: la prima impronta delle cose esercita, sulla memoria e la percezione, un’influenza che tocca il vero me stesso all’interno di me. La forma del mondo trova la sua espressione privilegiata negli oggetti estetici, qui, la letteratura, altrove il tratto.
Nel momento in cui gli viene il desiderio di disegnare e di dipingere, il poeta Henri Michaux scrive << se desidero procedere con segni piuttosto che con parole, è sempre per mettermi in comunicazione con ciò che ho di più prezioso, di più vero, di più intimo, di più mio…>>
Come non essere sensibili a ciò che suggerisce l’ultimo paragrafo di questo testo?
<<D’int’ubagu>>, dal fondo dell’opaco io scrivo, ricostruendo la mappa d’un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria, il luogo geometrico dell’io, di un me stesso di cui il me stesso ha bisogno per sapersi me stesso, l’io che serve solo perché il mondo riceva continuamente notizie dell’esistenza del mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c’è.
Michel Luҫon